«Non c'è evento che avvenga una volta soltanto, né cosa che esista senza esser già esistita.»
11 novembre 2011, ore 00:42
Questa la data e questa l'ora a partire dalle quali Chiara - studentessa di 21 anni nella città di Pisa - non subirà mai più al...
Diverso carro, diverso uomo alla guida, tutto il resto: identico. Quel pensiero, però, mi alienava dal mondo e mi poneva in una dimensione diversa, una dimensione dove nulla di tutto ciò aveva importanza. "Ma se non era Alex, perché era uguale a lui? Perché, per giorni, mi è sembrato lui?"
Le ruote correvano a velocità sostenuta sul selciato, guardavo di fronte a me attraverso il tessuto di juta del sacco che lo sbirro mi aveva infilato sulla testa, una volta che m'aveva caricata.
"No, sto impazzendo. E' che non volevo che fosse lui. Non potevo accettarlo, e così ora il mio cervello mi fa avere le allucinazioni, per farmi credere che fosse un'altra persona. Sì. Dev'essere così".
- Aye, ibketai ladnye. Ihdadai enset, - delle voci da fuori. Il carro si arrestò.
- Ey Jabir ther Novorul. - La guardia si espresse in modo solenne, scandendo ogni parola. - Venevyoli-Dumiur fin Ruqquali-Qolm, loktut te-pajnumi tishkim fin Rohiomi-Bolb. Huqqen mipethey.
Passò qualche secondo. - Visur, visur. Dharye dern.
Il carro ripartì.
"E se non stessi impazzendo? E se fosse tutto reale?"
Dopo un po' la marcia ebbe termine. Già da mezz'ora, almeno, i rumori all'esterno si erano intensificati: non eravamo più isolati nella campagna. L'uomo smontò, salì nell'abitacolo, sciolse il nodo attorno alle mie caviglie, mi afferrò per un braccio e mi trascinò giù. Camminavo a fatica: lui mi sorreggeva e, al contempo, mi spintonava in avanti. Attraversammo in questo modo una grande piazza gremita di persone, immersi in un esteso brusio, indifferente alle nostre azioni. Mi domandai se per quella gente fosse normale vedere un cinquantenne scendere da un carro e portarsi dietro una ragazza che teneva un sacco in testa. Poi, dopo un'ottantina di metri, iniziammo a salire delle scale: uno a uno, contai novantatré larghi gradini di pietra levigata; il sole batteva sulle mie spalle.
"Ridden... Alex... Ridden... Alex..."
- Ihdadai enset!
- Ey Jabir ther Novorul... Huqqen mipethey. - Con la mano libera, la guardia estrasse dei fogli da una tasca interna della sua divisa, li dispiegò e li tese alla persona che le stava di fronte.
- Visur. Dharye dern. - Si discostò di un passo.
Varcammo una linea d'ombra. Un atrio. Chiacchiericcio di questuanti in attesa. La guardia arrestò il passo.
- Ilassotas! - tuonò, di colpo; e la vibrazione del suo grido si riverberò contro la pelle del mio braccio. - Ey ukday ihdozum te-venudrium Venabsussur, naq... Alibn Mirafsaj!
L'intero palazzo si ammutolì.
- Mi-miraf... Mirafsaj...? Dukata huqqen? - Solo dei sussurri sgomenti, oltre le mie spalle. - Hellya?! Ha-dharey teblevse... - Molti passi indietreggiarono, allontanandosi dal punto in cui ci erigevamo, io e lui, al centro della stanza. - Mirafsaj...! - Il vuoto si aprì attorno a noi.
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