Recuperati i cappotti dai divanetti, io e Sumaya sgomitammo sotto al palco per ripetere il percorso al contrario, fino a raggiungere la porta.
Quella sera l'aria non era fredda come lo era stata nelle notti precedenti. Tuttavia, quando uscimmo, il leggero strato di sudore che mi ricopriva il collo si gelò. Nei pressi dell'entrata, sotto all'insegna, stanziava un piccolo gruppo di persone, intente a fumare e a cercare di condurre una conversazione dotata di senso lontano dagli amplificatori. Gettai attorno uno sguardo distratto, per scoprire se ci fossero anche quei due ragazzi tra loro, ma non li trovai. Sumaya camminava a passo svelto attraverso il piazzale, quando una vibrazione continua mi lambì il fianco destro. Presi a rimescolare le cianfrusaglie che tenevo nella borsa.
«Aspetta, Maya, mi chiamano.» Mi bloccai a metà strada e aprii il cellulare: sullo schermo interno sbaluginò il mio numero di casa. Le diedi le spalle e premetti il tasto per rispondere. «Sì, pronto?»
Così, con la voce di mio padre nell'orecchio e la visuale riempita dal profilo del locale, passai in rassegna i volti di tutte le persone presenti. La maggior parte di loro stava rientrando. «No, pa'. Sono fuori con Maya. Siamo al Club.» E, quando non rimasero che loro, li trovai: Alex era appoggiato con la schiena al muro, per metà nascosto dalla penombra, e il Caino, in piedi di fronte a lui gesticolava con profonda convinzione. Qualunque cosa stesse dicendo, l'altro lo ascoltava partecipe e rideva con lui. «Intendevo il Jazz Club» risposi alla domanda che proveniva dall'altro capo del telefono. «No, penso rientrerò a breve. Ma non serve che m'aspetti alzato...»
Poi, di punto in bianco, Alex distolse l'attenzione da Dennis, e proiettò lo sguardo verso il piazzale. Assestò una spallata all'altro e, con la mano nella quale teneva la sigaretta accesa, gli indicò un punto nel buio, dietro di me. Il Caino seguì la direzione del suo dito, si girò e, di botto, smise di parlare. Aveva gli occhi sbarrati. Il mio cellulare era ancora appiccicato all'orecchio, mentre anche io, con la massima cautela, mi voltavo.
Oh, cazzo.
«Pa', scusa, devo staccare.» Chiusi di scatto il cellulare e me lo cacciai in tasca. Davanti a me, a non più di una ventina di passi di distanza, Sumaya si divincolava furiosa dalla stretta del Mariano. Lui le serrava i polsi con una mano, mentre con l'altra cercava di afferrarla per la vita, e più lei tentava di spingerlo via, più lui si protendeva, fino a compiere un giro completo l'una attorno al corpo dell'altro.
Di lei, sentivo mezze parole smorzate dalla collera. Di lui, mi raggiunse una sola frase, una sbiascicata, viscida e tracotante:
«E dai, Maya» farfugliò. «Lo so che lo vuoi.»
"Lo so che lo vuoi? Ha detto proprio così? Lo so che lo vuoi".
Il sangue mi affluì di colpo tutto al cervello e il resto del mondo sparì. Alcune immagini si sovrapposero a quella scena, sbattei le palpebre e, quando guardai di nuovo, non era più il Mariano, quello di fronte a me.
"Software".
Software si mise ai comandi.
Sì. Lo spray di Tina.
"Lo spray". Con una mossa meccanica infilai la mano nella tracolla; le dita si serrarono attorno al cilindro di metallo freddo; presi il Mariano di mira, e coprii la distanza che mi divideva da lui. Quindici metri. Undici. Otto. Lo puntavo come un'aquila punterebbe un leprotto ignaro in una prateria.
Chiamalo.
«Ehi, bastardo!» Non ero che a un passo da lui. Questo fu sufficiente a distrarlo e a farlo voltare nella mia direzione: mi guardò con un ghigno sprezzante, i denti scoperti. Grandissimo errore: in un attimo, la bomboletta fu a un palmo dalla sua faccia e la sostanza urticante gli rifluì nelle orbite. Gridò di dolore, un boato lacerante che squarciò l'aria. Mollò la presa su Sumaya, si trascinò all'indietro, portandosi le mani alla faccia.
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Recursion
Fantasía«Non c'è evento che avvenga una volta soltanto, né cosa che esista senza esser già esistita.» 11 novembre 2011, ore 00:42 Questa la data e questa l'ora a partire dalle quali Chiara - studentessa di 21 anni nella città di Pisa - non subirà mai più al...
