III.

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Dopo undici ore di volo e due scali, toccare la terra ferma con la pianta del piede fu la cosa più bella che mi fosse capitata. O quasi. Mi piaceva viaggiare, ma non quando si trattava di ore ed ore sospesa nel cielo e specialmente se a guidare non ero io. Odiavo non poter controllare le cose e non poterlo fare da quattro anni era un incubo per me. A volte l'inferno si trovava sotto i nostri nasi, nel mondo che reputavamo sicuro. Il pugno di Erazm batté più volte sul ferro nero della porta e mi lanciò un'occhiata, come se avessi potuto dare in escandescenze di lì a poco. Alzai un sopracciglio con fare confuso e lui sbuffò, con la mano che continuava a battere sulla porta.

Essa si aprì di scatto dopo qualche secondo e ne spuntò una matassa di capelli neri, scuri come non mai, che erano l'unica cosa che l'altezza di Erazm mi permetteva di vedere. «Finalmente, cazzo».

Quest'ultimo superò la matassa di capelli neri con il corpo irrigidito dal fastidio e Med lo seguì senza neanche salutarlo. Notai la testa del ragazzo con i capelli neri scattare di lato. «Sai che se bussi una sola volta ti apro comunque?». Ringhiò. «Non ho un codice morse come citofono».

Quella voce profonda e gelida mi fece irrigidire ogni singolo muscolo del corpo, con i capelli che si rizzavano sulla nuca in preda ad un brivido tra il piacevole e il terrificante. Quella voce era stata il centro dei miei incubi per anni, la mia tortura in quei mesi di lavoro, la mia mancanza più grande e al tempo stesso la mia condanna più dolorosa. Era impossibile fosse davvero lui. Impossibile.

Tornò a voltare la testa dai capelli corvini verso di me e quando i nostri occhi si incontrarono, i suoi si riempirono di sorpresa, proprio come i miei. Il suo corpo, con il petto ampio nudo e addosso solo dei pantaloncini neri, si protese in avanti, come se volesse sfiorarmi. Eppure, la sua mano rimase lì, a mezz'aria. «Arya?». Mormorò.

Respirai a fatica. «Dantalian». Risposi.

Fuoco e ghiaccio si mischiarono nel suo sguardo, mentre indietreggiava quasi fosse stato colpito da un proiettile invisibile. «Come-».

Un lieve zampettare sul pavimento mi costrinse a distogliere lo sguardo per abbassarlo ai miei piedi, su una cagnolina tutta bianca e a chiazze marroni, un marrone caldo, quasi ramato. «Nike?». Con la gola secca, piena di spine, parlai a voce tremante e mi abbassai sulle ginocchia.

Lei scodinzolò con la sua particolare allegria e mi osservò con gli occhi grandi e dolci che avevo bramato per anni, con la speranza che mi ricordasse. E lei mi ricordava, mi aveva ricordato contro il tempo, perché iniziò ad abbaiare e a girare su sé stessa, come se mi stesse urlando "prendimi". La presi in braccio, stupita di quanto fosse cresciuta, pur rimanendo stupenda e dolce com'era da cucciola. «Nike, sei tu». Con le mani su di lei la strinsi al petto e iniziò a leccarmi con affetto in ogni punto in cui riuscisse ad arrivare.

Lo sguardo perso di Dantalian si spostò dietro di me, alle mie spalle, e poi si abbassò lentamente su ciò che indossavo: una semplice giacca nera a mo di vestito, stretta sulla vita da una cintura dorata e spessa. Si irrigidì e indicò l'interno della casa con un gesto della testa. «Entra». Sibilò.

Gli scoccai un'occhiataccia mentre lo superavo e mi infastidii di quel tono. Ero io quella arrabbiata, furiosa, delusa e che provava altre mille emozioni negative, lui non aveva diritto di esserlo. Non era in diritto di fare niente di ciò che aveva fatto. Med sorrise quando vide Nike tra le mie braccia, come Erazm, che poi spostò lo sguardo alle mie spalle.

«Che bella riunione di famiglia». Commentò con tono acido.

Med tentò di allentare la tensione. «Noi andiamo a prendere qualcosa da bere in cucina, torniamo più in fretta possibile». Mi lanciò uno sguardo, mentre io lo imploravo di non farlo, e fece alzare Erazm.

TecumWhere stories live. Discover now