XVII.

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«Arya, cosa vuoi sopra il porridge?». 

Alzai lo sguardo dalla tazza fumante di caffè per puntarlo su Erazm, in piedi dall'altra parte della mensa, con la mano protesa verso i contenitori di frutta fresca o secca. 

Sorrisi per la sua premura, il suo dolce modo di prendersi cura di me che non sarebbe mai cambiato. «Lamponi e mirtilli, grazie Er».

«Tra di noi non esiste il grazie, amor meus». Stavamo sussurrando, ma non era difficile per noi sentirci malgrado i metri di distanza. Era una cosa utile, anche se limitare il vociferare e cercare di non sentire le altre conversazioni non era semplice. 

Dantalian non era sceso a fare colazione, come nessuno degli Élite. Come anche Kyran, che non vedevo dalla notte del nostro bacio, ma Nezha mi aveva assicurato che stesse bene. Spesso lo vedeva sparire per qualche giorno e riapparire come se nulla fosse, come un abile ladro o un hacker. Non lo vedevi, ma c'era. Era lui a decidere quando mostrarsi. 

Erazm si lasciò cadere sulla sedia come un sacco di patate. Non aveva una bella cera: i suoi capelli del colore delle nuvole era spento, poco lucente, e i ciuffi sparavano in tutte le direzioni, il pallido della sua pelle accentuava i segni scuri sulle borse dei suoi occhi e le sue labbra erano all'ingiù, tristi come il suo sguardo. 

Lo vedevo poco ormai, facendo parte di due classi diverse, non potendolo toccare a causa dei nostri sessi diversi, e soffrivo nell'avere un contatto con lui solo durante i pasti. Ma sapevo che non fosse quello il suo problema, come non lo era il mio: per quanto fossimo distanti fisicamente, per quanto poco ci vedessimo, io lo sentivo sempre vicino. Ad un passo dal mio cuore, dove lui aveva preso abitazione sin dal primo giorno, e dove nessuno avrebbe potuto fargli del male. Perché lui era mio fratello, indipendentemente da quanto i nostri organi vitali fossero distanti. Perché lui portava con sé il mio e io il suo, ovunque andassimo. 

Gli posai una mano sulla gamba, nascondendola sotto al tavolo. Il primo contatto dopo qualche settimana. «Er, ne vuoi parlare?».

Scosse lentamente a testa, senza neanche alzare lo sguardo, continuando a posare la frutta sul mio porridge. Prima il mio, poi il suo. 

«Va bene... va bene non essere pronti». Continuai ad accarezzarlo. «Quando vorrai, se vorrai, io sono qui». 

Annuì, ma poco dopo chiuse gli occhi. «Sono un disastro...». Sospirò a scatti, come se avesse un dolore al cuore. «Ho... ho dimenticato il vasetto di miele e... e così fa schifo».

«Ehi». Strinsi la sua gamba, resistendo all'impulso di prenderlo per le guance per farmi guardare. «Non fa nulla, a me piace anche così-».

Scosse la testa. «Sono un disastro, non riesco a fare nulla». 

Sospirai sofferente. 

Sapevo cosa stesse provando. Quando si sta male mentalmente, quando si vive un dolore che non riusciamo a controllare, qualunque piccola cosa che falliamo ci sembra un qualcosa di enorme. Ci incolpiamo per tutto, anche per le cose più stupide, perché ci sembra quasi di meritarla quella sofferenza, di meritare altro dolore. Come se ci stessimo punendo di aver sofferto, recandoci un ulteriore sofferenza. E allora le cose piccole non erano più così piccole e uno sbaglio grave quanto una mollica di pane diventava un intero forno, un intero panificio. 

«Er, sei stato bravo. Sei bravo, lo sei sempre». Tentai di sorridere, anche se i miei occhi erano lucidi.

Indicai il mio porridge. «Mi hai anche messo la frutta in un determinato ordine per formare un cuore. Non te ne sei nemmeno reso conto, eppure guarda quanto sei bravo. Sei stato bravo, lo sei stato, Er. Lo sei anche quando non ci sono, anche quando con te non c'è nessuno, perché tu sei bravo». Sussurrai. 

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