XXIV.

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"Non le aveva raccontato semplicemente la sua vita: l'aveva travolta così come ne era stato travolto lui. Lei lo aveva ascoltato senza respirare, con la bocca lievemente aperta per riempirsi i polmoni del suo dolore, della sua voce, del suo stesso respiro. Lui aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a portare il peso della sua vita. Aveva bisogno di lei."

«Proprio non capisco...». Borbottai, chiudendo il libro, il cavaliere d'inverno, che avevo poggiato sulle gambe in uno scatto furioso. 

Il peso di due braccia posate sulla mia testa si alleggerì e riuscii a vedere un viso spuntare alla mia destra grazie alla visione periferica. Spostai lo sguardo su di lui e incontrai una vasta distesa di nero, rinchiusa all'interno delle iridi del ragazzo alle mie spalle. 

Aveva fatto di tutto per creare quella piccola giornata, racchiusa in poche ore, seppur semplice e improvvisata fra le pareti della mia camera. Con l'aiuto di Ximena avevano creato un piccolo letto sotto la finestra, così da essere illuminati dalla luce naturale del sole, avevano tirato fuori alcuni dei libri che avevo preso in prestito dalla biblioteca e avevano acceso delle candele poco distanti da noi, che riempivano l'aria del dolce profumo di lampone e frutti rossi. Prima di entrare in doccia la nostra camera era una semplice camera e quando ne ero uscita, essa si era trasformata in uno scorcio di felicità in mezzo al più gelido dei luoghi. 

«Cosa non capisci?». La nota divertita nella sua voce mi fece aggrottare la fronte. 

La vita, avrei voluto rispondere, ma evitai. Gli lessi la frase che mi aveva costretto a chiudere il libro di scatto e poi parlai. «Come puoi riporre così tanta fiducia in qualcuno da permettergli di aggiustarti? Come puoi dire, ammettere, di aver bisogno di qualcuno quando non potrai mai avere la sicurezza che sarà proprio lui a portarti a fondo?».

Mi accasciai, esausta, e la mia schiena si scontrò contro il suo petto, più duro di quello che pensavo. Le sue braccia mi circondarono e il suo mento si posò sui miei capelli. «Non credo che succeda consciamente. Credo che succeda piano piano, giorno dopo giorno permetti a quel qualcuno di accarezzarti una ferita diversa e in uno di quelli semplicemente ti guardi allo specchio e noti che non ne hai più alcuna. Che sei pieno di cicatrici, sì, quello sempre, ma che non fanno più male, che sono solo un ricordo».

«Te lo saprò dire se mai mi succederà. Fino ad allora è un'immensa cazzata per me». Sospirai.

Rise. «Facciamo un gioco». Lo esortai a continuare. «Menzioniamo alcune frasi di questo libro e vediamo cosa ne pensa l'altro».

«Perché, tu l'hai letto?». Strillai stridula, voltandomi per guardarlo, e lui annuì. «Ma come? Ti piacevano solo i-».

«Perché lo hai letto tu. Ti ho osservato, in questi giorni di assenza, e ti vedevo così assorta che ho deciso di iniziarlo anche io per sentirmi più vicino a te, per riuscire a capire perché in certi momenti storcevi il naso, in altri accavallavi le gambe o in altri ancora alzavi gli occhi al cielo per non piangere davanti a tutti in biblioteca». Alzò le spalle e a me tornò in mente, come un fulmine a ciel sereno, una conversazione particolare che avevo avuto anni prima con una persona. 

«Me lo annoto. Lo leggerò», aveva mormorato, e io gli avevo chiesto perché. «Perché ci sono cose che non dici a nessuno, parti di te che non hai intenzione di far conoscere. Nessuno ti può conoscere al 100 %», aveva risposto. «Ma credo che leggere i libri preferiti di una persona sia il modo più veritiero e meno invasivo per conoscerla davvero».

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