XVIII

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«Fate piano». Mormorò Myn, camminando a piedi scalzi e tenendo i suoi stivaletti in mano per evitare di fare rumore. 

Non voleva che qualcuno ci vedesse e facesse la spia, aveva detto. C'erano occhi e orecchie ovunque, anche nei muri, aveva aggiunto quando mi ero mostrata confusa.

Gli stivali di pelle nera di Rut pestarono uno dei tanti pezzi di vetro che si trovavano a terra, attorno alla spazzatura e ai cassonetti posti nel retro dell'orfanotrofio. Sopra di essi c'erano due finestre e, malgrado lo sdegno di Ximena, ci eravamo calati giù proprio da lì. 

Il che era stato difficile, considerando quanti fossimo: Myn, io, Rut, Xim, Med, Erazm e Rica, la partner di Amyas. Le altre erano troppo spaventate dall'idea di infrangere le regole, non solo dell'istituto ma anche quelle dei propri partner. 

Nezha era rimasta con Honey, leggendo libri e facendo la guardia, con la paura che qualcosa potesse andare diversamente da come doveva. Anche se Xim aveva supplicato la sorellastra di uscire con lei, non c'era stato verso. Sembrava come se sapesse che la tempesta stava per arrivare, era questa l'impressione che mi aveva dato, ma avevo deciso di non dargli troppo conto. 

Myn fulminò Rut e lui assottigliò lo sguardo. «Scusa se non ho i piedini fatati come te, principessa». Grugnì, prendendo Ximena per i fianchi e aiutandola a cadere in piedi con più grazia di quella che aveva usato lui. 

Erazm prese me allo stesso modo e io mi aggrappai a lui come una piccola scimmietta, con le braccia attorno al suo collo e le gambe attorno alla sua vita. 

Quando scesi da lui, in modo poco aggraziato, e persi l'equilibrio, rischiando di cadere con il sedere per terra se non fosse stato per i suoi riflessi pronti, la vergogna mi investì come un camion in pieno petto. Oltre il dolore acuto e il vuoto al cuore. «Scusami, io non... non sono più aggraziata come un tempo, io...».

«Va tutto bene. Sei sempre perfetta, amor meus». Sorrise e mi accarezzò la guancia. Il sorriso non arrivò ai suoi occhi, però. 

Rut mi osservò con sguardo serio. Aspettò che tutti lo superassero e poi mi si affiancò, avviandoci verso la città. Parlò solo quando gli altri iniziarono a parlare di altro fra di loro e le voci coprirono la sua. «E chi l'avrebbe mai detto che una come te potesse diventare codarda».

«Come, scusa?». Assottigliai lo sguardo. 

Mi guardò di sottecchi. «Sei una codarda. Ti rifugi nel dolore perché non hai il coraggio di affrontarlo. Dovresti impararne qualcosa, dovresti combatterlo, invece non fai che accettarlo e farti piegare».

«Ma di che diavolo stai parlando?». Ringhiai furiosa.

Voltò la testa di scatto. «Sto parlando di te! E del tuo ignorare i tuoi evidenti problemi, le tue evidenti debolezze, per non imparare di nuovo a combatterle!».

«Ma che ne sai tu ciò che ho passato? Di come mi sento? Non ne sai nulla tu, come nessuno! Io so, solo io». Mi trattenni dallo strillare. 

Storse la bocca. «Non lo sappiamo perché non ne parli, ma si vede lontano un miglio quanto tu sia indebolita. Perdi tempo a piangere su te stessa e a lanciare la tua rabbia sugli altri, ma non fai nulla per aiutarti! Non sai più combattere? Fatti addestrare! Non sai cucinare? Segui un corso online o che cazzo ne so! Vuoi aiuto? Fatti aiutare!». Sibilò.

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