XVI.

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Dantalian

«Che state facendo?». Myn ci guardò con occhi sgranati, così come l'intera mensa, mentre io e Nivek attraversavamo la stanza per fermarci al centro di essa.

Il bucaneve, così lo chiamavo per via dei suoi capelli chiarissimi, mi scoccò un'occhiata ammiccante. Aveva le braccia conserte, occupato a tenere tra di esse una quantità esagerata di dolciumi di ogni tipo: cioccolato, biscotti, zucchero filato in busta. Io, nel frattempo, mi piegai verso il basso per posare a terra una grande cassa, unita ad uno stereo altrettanto grande. 

Il tonfo delle porte della mensa mi fece capire che il capo, Melville, era appena entrato. Il vociferare, infatti, si era arrestato e tutti osservavano con curiosità quel ragazzo che definivano crudele, ma senza sapere che bastava conoscerlo per capire che era tutta un'armatura per proteggere sé stesso dai colpi duri della vita. 

La gente era abituata ad odiare o giudicare una persona ancora prima di conoscerla, ancora prima di capire per quale motivo fosse diventata ciò che era. Non pensavano a quanto dolore ci fosse dietro. Quello mai. Era più facile odiare che conoscere.

Melville sorrideva, uno dei suoi soliti sorrisi accattivanti, e camminava come se il mondo gli appartenesse, ignorando totalmente le scatole di pizza sovrapposte una sull'altra che portava tra le mani. Dietro di lui, Thorne e Amyas erano messi allo stesso modo, mentre il piccolo dolce Samir sembrava faticare un po' mentre spingeva con forza una scatola piena di bibite gassate e poco dietetiche. Amos, con il petto tremante dalle risate, corse ad aiutarlo.

«Non vi preoccupate, nessuno di voi verrà punito per ciò che ci aspetta oggi e nei prossimi due giorni». Melville tornò ad avere la sua classica espressione severa e parlò a voce alta. «Fidatevi di noi, per una volta. Per ora saremo liberi, come poche volte ci è stato concesso, perché l'istituto è tra le nostre mani fino a quando Denholm non tornerà dall'orfanotrofio di Denver».

Era stata un'idea mia fare tutto questo, perché loro non l'avevano mai fatto prima. Avevano continuato a seguire le regole anche quando lui non era presente, come dei bravi burattini, ma non doveva andare così. Proprio no. Era ora di vivere un po'. 

Amos si schiarì la voce e mi spintonò con forza, ricordandomi di dover dire qualcosa. Sorrisi e alzai lo sguardo. «Ovviamente, finiti questi giorni, tutto dovrà essere ricordato solo come un sogno. Se veniamo a sapere che qualcuno ha fatto la spia...».

«Dubito potrà camminare per almeno due settimane». Nivek ammiccò.

Amos strinse gli occhi. «O forse per un mese».

«O forse... per sempre». Melville lasciò cadere la frase come se nulla fosse e il silenzio si fece più forte subito dopo. Quando fu soddisfatto batté le mani e ci indicò di cominciare a distribuire le pizze.

Erano quasi tutte semplici, con pomodoro e mozzarella per accontentare tutti, tranne quella mia e della mia partner, che sapevo mi stesse osservando senza bisogno di girarmi a guardarla. 

Sapevo sempre quando mi guardava, perché i brividi lungo la schiena erano difficili da ignorare. Quando il mio sguardo si unì al suo, fu difficile anche non correre da lei e stringerle il viso fra le mie mani, quasi troppo grandi in confronto, per finire ciò che avevamo iniziato due notti fa.  

Sentivo ancora il suo sapore tra le labbra, quel sapore che avevo sentito anche la mattina dopo e avevo sorriso, sfiorandomi la bocca per ricordare come fosse sfiorare la sua. Il sapore più buono del mondo, il più dolce, che avrei voluto fosse la mia colazione, pranzo e cena per l'eternità. Era sempre stupefacente rendermi conto di quanto fossi perso di lei e di quanto lei, allo stesso tempo, fosse la strada giusta per ritrovarmi. 

TecumWhere stories live. Discover now