XLI.

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Lo riconoscevi l'amore vero quando si presentava alla tua porta. Riusciva ad entrare anche con mille giri di chiavi, anche con la serratura più sicura, anche con un codice criptato e inventato da un hacker, e ti stravolgeva la vita. Si prendeva il tuo cuore in mano, lo strizzava, ci giocava e lo faceva sanguinare, ma solo per avere la possibilità di curarlo da tutti gli altri tagli che ti erano stati fatti, in silenzio e di nascosto.

All'amore, io, non ci avevo mai creduto. Non finché non avevo incontrato un paio di occhi caldi come il sole e profondi come la notte, un profumo dolce come il miele e delle carezze così delicate da ripararmi. Ho capito solo dopo di averlo amato, di amarlo e di essere destinata ad amarlo per l'eternità.

Più o meno quando cercavo pezzi di lui in luoghi in cui sapevo che non ci sarebbe mai stato, per vivere sempre con la speranza di incontrarlo di nuovo. Con la speranza di innamorarmi di lui un'altra volta, come la prima volta. 

L'ho ricapito quando mi ha aiutato senza dirlo, quando si è sacrificato per salvarmi, quando ha lasciato che lo odiassi, quando mi ha portato a tatuarmi, quando mi ha disegnato delle costellazioni sulla schiena, evidenziando le mie cicatrici, o quando si è fatto dare le chiavi dell'auto da Melville per accompagnarmi a rifare le unghie. 

"Le cose che a noi sembrano superficiali, per altri sono tutto. Ci sono cose semplici, superflue quasi, che ci rendiamo conto di quanto sono essenziali solo quando vengono a mancare", aveva detto oggi. "Credo che avere le unghie curate per te sia una di quelle cose. Una di quelle che ti fa sentire più te stessa". 

Quando ero uscita dall'estetista con le mie nuove amate unghie lunghe, del solito bordeaux che amavo e con una forma a mandorla, che lui chiamò "da strega", mentirei se dicessi che non mi ero commossa. 

Un paio di piccole gocce erano uscite dal mare nei miei occhi ed io mi ero vergognata di me stessa, ma lui, come sempre, le aveva bevute una ad una come un elisir e poi mi aveva guardato con stima assoluta. "Ho sempre voluto bere le tue lacrime nella speranza di vedere il mondo nello stesso modo in cui lo guardi tu", aveva sussurrato. 

Mi aveva portato in un bosco poco lontano dall'orfanotrofio, accessibile e isolato, poiché privo di sentieri e difficile da raggiungere per gli umani. Si era seduto su un tronco tagliato a metà e mi aveva disposto nel suo grembo, quasi come una bambina, godendosi le carezze delle mie unghie sulla sua nuca. Ora sorridevo perché avevo capito il motivo per cui aveva scelto questo posto e questa posizione. Lo avevamo già fatto, anni prima, poco dopo la mia lunga conversazione con Adar e Astaroth. 

«Dimmi la verità, demoniaccio...». Sorrise a quel soprannome. «Perché mi hai portata qui?».

Mi osservò da vicino, con il mento posato sulla mia spalla e le braccia strette attorno alla mia vita. «Anni fa, in un posto simile a questo, tu mi stavi lasciando andare. Mi stavi estirpando da dentro di te come una radice velenosa, lasciando scorrere via il veleno attraverso delle lacrime invisibili, con le spalle scosse da singhiozzi. Credo che sia stato quello il momento in cui hai capito di dovermi lasciare andare, proprio fra le mie braccia».

«Sì, mi ricordo molto bene». Se mi concentravo sui ricordi, riuscivo ancora a sentire il mio stesso cuore spezzarsi e la mia cassa toracica inondarsi di quelle lacrime che non potevo fare uscire.

Alzò il palmo della mano verso di me e dalle sue dita uscirono degli sbuffi di fuoco, un po' rossi e un po' blu. Era diventato davvero bravo a invocare Ignis e a controllarlo, come a domare Anemoi e Fermentor. Lo si vedeva dai cambi climatici non più repentini e adatti alla stagione in cui ora ci trovavamo. «Ora credo sia arrivato il momento di lasciare andare loro».

TecumWhere stories live. Discover now