XXII.

7.7K 424 174
                                    

Dantalian

«Sei sicuro che va tutto bene?». 

Nivek mi dedicò uno sguardo preoccupato, celato all'interno dei suoi occhi così simili al cielo, nitido e senza nuvole. Inspiegabilmente era sempre in grado di vedere dentro di me anche nei momenti in cui mi chiudevo a riccio, minacciando di pungere chiunque avrebbe osato provare a toccarmi. Ma lui non aveva paura delle mie spine, ero io ad averne.

Annuii distrattamente, ma non sembrò convincersi. «Se vuoi resto anche io qui. Abbiamo sbagliato tutti, la colpa non era solo tua. Non dovevi prenderti la colpa per tutti, non è giusto».

«Sono abituato a portare la colpa di altri sulle spalle, bucaneve. Sono l'unico che può sopportare questo peso, tranquillo. Va a lezione ora o non avrà avuto senso il mio gesto se ti farai punire per altro». Alzai le spalle. 

Sospirò, amareggiato, e suo malgrado annuì. Mi sfiorò la spalla in un gesto consolatorio e affettuoso e uscì senza dire altro, con il taccuino in mano e la penna trattenuta fra le dita. 

Poggiai la nuca al muro dietro al mio letto e la sbattei più volte, ignorando le piccole fitte di dolore. Spostai lo sguardo sul comodino che divideva i nostri letti e sorrisi, vedendo un fazzoletto raggomitolato su sé stesso nel vano tentativo di nascondere la fetta di torta al suo interno. Nivek amava la torta alle carote, avrebbe mangiato quella ogni giorno per l'eternità, tanto quanto la mela rossa a fianco ad essa. 

Mi ero davvero affezionato a quel figlio di puttana, con i suoi sorrisi a mezza luna, il suo dormire a pancia in giù o con il sedere in aria quando era davvero stanco, il suo russare così tanto da costringermi a tirargli un cuscino nel cuore della notte o le sue espressioni contrastanti mentre leggeva. Quante notti insonni avevamo fatto, leggendo ognuno i suoi libri, e commentandoli nel mentre, finché la luce della nostra stanza non disturbava Melville e Amos, poiché la nostra finestra era proprio di fronte alla loro, e iniziavano ad urlare insulti in piena notte.

Allora ridevamo fino alle lacrime, spegnevamo la luce immediatamente e ci rifugiavamo all'interno delle coperte, sorridendo nel sentirli ancora brontolare ad alta voce. 

Sbuffai, sentendo una morsa stringermi il cuore e spappolarlo come un budino. Avevo bisogno di parlare e l'unica persona con cui potevo farlo, l'unica che conoscesse tutto, l'unica con cui mi ero confidato per anni e che aveva diviso il peso al cuore in due, aiutandoci a vicenda a portarlo in giro ogni giorno, era un certo lupo dal pelo morbido e gli occhi azzurri. 

Presi il cellulare e gli mandai un sms. Uno solo, con una sola frase.

"Snow fall too much slowly today".

Era il nostro modo indiretto per ammettere che oggi era difficile cadere e rimanere uno dei fenomeni metereologici più belli. Oggi cadevi e pensavi solo al dolore di essere caduto sul terreno gelido, mentre il mondo attorno a te continuava ad andare come se niente fosse, ma il tuo orologio si era fermato. Il tempo scorreva lentamente e pesava il triplo. 

La prima volta in cui mi aveva mandato quel messaggio ero rimasto molto confuso, credendo semplicemente che ad Ottawa la neve fosse meno forte del solito, e allora gli avevo risposto dicendo che era anche meglio. Ma poi lui aveva risposto di essere a San Diego, dove ero io, e qui non c'era un solo accenno di neve. Il sole splendeva alto, come ogni estate. Avevo aperto la porta e me lo ero ritrovato davanti. 

TecumTempat cerita menjadi hidup. Temukan sekarang