2. Anti-eroe

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Ischia.
Estate.


Mi dicevano sempre che fossi diversa dagli altri bambini.

Mi chiedevo per quale assurdo motivo io dovessi stare seduta invece di fare educazione fisica con gli altri compagni, mi chiedevo per quale motivo non potessi fare sport o non potessi uscire con alcune amiche che per una sola volta avevano trovato coraggio a proporlo. Poi, più grande diventavo, più capivo che ero destinata a quell'isolamento, a quel starmene in disparte. Come una spettatrice di film tutti uguali.

Abituarmi allo stile di vita di quella vacanza fu strano.

Non ero mai stata fuori Roma per così tanto tempo. Non perché non volessi, o perché i miei non volessero – credo – ma perché le mie condizioni di salute non me lo permettevano in maniera integrale, purtroppo.

Sin da quando ero una bambina ero abituata a stare per giorni in ospedale. Per mancanze di ossigeno, per sforzi generati inconsapevolmente o per controlli generali.

All'età di cinque anni sentii per la prima volta la parola: dispnea. Una rottura di coglioni, tradotta in maniera più esplicativa. Quella parola era l'anti-eroe del mio film. Mi impediva di fare qualsiasi cosa volessi, cominciai ad odiarla, cominciai a vederla come qualcosa da cui fuggire e nascondermi.

Problema disfunzionale del muscolo cardiaco, 'sto cazzo. Era marchiato con la cera bollente sopra ogni singola azione compiessi. Avevo imparato a memoria la mia cartella clinica. Ero limitata in qualsiasi cosa, ero debole e fragile da far schifo.

Certo, non potevo dire di odiare la mia vita. Alla fine mi toglievo le scocciature come il sudore o il male alla milza, e poi scoprii che correre e fare sport non mi piacesse chissà quanto. Ma, ovviamente, ad ogni limite c'è una conseguenza.

Tutto questo ambaradan di problemi e divieti, aveva causato una sedentarietà ancora più disfunzionale della dispnea stessa. All'età di undici anni cominciai a soffrire di disturbi alimentari, nessuno se ne accorse: «Ho mal di pancia, non mi va la torta.» Questo perché vedevo tutte quelle bambine coi fisici sviluppati, pronte per addentrarsi alle scuole medie ed io, invece, sembravo un personaggio di un cartone animato giapponese. Con quelle lentiggini, quei boccoli rossi, con quella pelle lattea.

Diventò tutto più pericoloso quando cominciai a soffrire di bulimia a quattordici anni. Brutta bestia. Durante una visita, il mio dottore di fiducia che avevo imparato a chiamare per nome, Matteo, notò vari sbalzi nei valori: ferro basso, scarsa energia. Lo stranì, mi suggerì di mangiare più carne bianca e riposare di più — idiozia, dato che riposavo fin troppo —. Degenerò ogni cosa durante il mio terzo anno di liceo. Mi ricoverarono per mesi e mesi.

Non vorrei sembrare la solita ragazzina ricca e infelice, perché io felice lo ero, in fin dei conti. Non mi mancava nulla, avevo ciò di cui avevo bisogno: una casa con ogni agio possibile, alti voti a scuola e una nuova compagnia di amiche che mi trattavano bene. La verità era, tuttavia, che ero gelosa.

La volevo anch'io una vita movimentata. Quel brio sulla pelle quando si fa qualcosa di spericolato: imbucarsi ai concerti, bere fino a stare male e tatuarsi di nascosto.

Avevo mascherato la mia gelosia e la mia insoddisfazione con la scuola. Ero un'alunna eccellente, ma ero povera di vita. Tutto qui. Con la mia famiglia non ero molto spigliata, dopo tutti quei problemi si era incrinato qualcosa, specialmente con mio padre.

Era sempre stato iperprotettivo, ma ciò peggiorò maggiormente. In qualche modo, quel suo atteggiamento di perseveranza e diligenza nei miei confronti, mi aveva portato a detestarlo e a non sopportarlo.

Alla ricerca dell'albaحيث تعيش القصص. اكتشف الآن