8. Avere diciott'anni

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"Se un giorno non avrai voglia
di parlare con nessuno, chiamami.
Staremo in silenzio."
- G. G. Márquez 🌹

Ischia.
Estate.




Il giorno seguente pensai con frequenza al suo discorso sulle "piccole cose". Ci pensai più di quanto avrei dovuto in realtà. Le ricordai così bene che mi sembrò che la mia memoria avesse registrato la sua voce mentre l'elencava, e mi bastava premere play per ricominciare punto e daccapo.

Probabilmente mi piaceva tanto quell'aspetto perché io, invece, di piccole cose ne avevo assaporate poche, se non nulle. Mi piaceva l'idea che un ragazzo così semplice come Elia portasse addosso dettagli così minuscoli da risultare speciali agli occhi degli altri.

Volli ricordarmene così arduamente che mi convinsi a scrivere quelle piccole cose anche sul mio diario. Elencai anche quelle che avrei voluto provare, sentire sulla pelle e cucire sulle palpebre. Quando mi trovai davanti alla pagina piena di scarabocchi, allora chiusi la penna.

Casa sua si vedeva dal balcone di camera mia. Alle cinque del pomeriggio, Elia uscì di casa con indosso un pantalone di tuta e delle scarpe da ginnastica bianche, lo vidi sparire oltre i cipressi correndo. Supposi avesse delle cuffiette nelle orecchie.

Dopodiché continuai a leggere il mio romanzo adagiato sulle cosce mentre una sdraio mi cullava la schiena, i piedi accavallati sulla ringhiera.

Alle sei del pomeriggio mi feci coraggio. Non era affatto da me prendere iniziativa, ma qualcosa mi attirava fuori di casa. Per la prima volta dopo aver messo piede su quell'isola sentivo il volere e il dovere di uscire dalle mie mura per qualcuno.

Infilai un pantaloncino corto — anche se l'idea di mettere in mostra i miei polpacci esili come spaghetti e le mie cosce bianche non mi allettava parecchio — e da sopra una camicetta azzurrina che infilai tra l'elastico dei jeans sporadicamente. Con i sandali al piede, scesi dalle scale e con un: «Faccio un giro in bici!», mi recai in giardino, afferrai i manichi della bicicletta e, una volta in sella, pedalai dritto per il tratturo.

Poi, non appena si fece più impervio, sterzai per introdurmi nelle colture. Il grano mi sfiorava le spalle e lo scrosciare dell'erba contro le ruote mi accarezzò le orecchie fin quando non sbucai nel territorio più curato e meno selvaggio della collina.

Già a pochi kilometri di distanza si udiva il grosso baccano di voci che si sovrastavano assieme al palese rumore sordo di una palla che andava a sbattere a destra e manco per la recinzione e il terreno. Scesi dalla sella con un salto, accasciai la bici tra l'erba tagliata e mi avvicinai pianissimo al campetto che sorgeva nel nulla.

Al suo interno c'erano meno ragazzi dalla prima volta che lo avevo visto. Una decina giocavano a basket, un altro gruppetto di quattro ragazze sostava in un angolo, parlavano ad alta voce, ridevano sguaiatamente.

Mi maledissi per la mia pessima idea. Come potevo credere di essere ben voluta lì dentro? Sembravano tutti conoscersi da una vita ed io mi ero permessa il lusso di andare a irrompere la loro quotidianità. Mi sembrava stessi violando qualche regola, che stessi facendo qualcosa di sbagliato.

Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. Elia mi vide dopo aver lanciato con una mano un tiro a dir poco perfetto ad un ragazzo dall'altro lato del campo. Giurai di averlo visto sorridere. Sospirò, il suo petto muscoloso si alzava e si abbassava velocemente affannato per via della corsa, il sudore gli illuminava gli zigomi e gli arrossava le gote.

Alzai una mano in segno di saluto. Con un cenno fece capire che si sarebbe allontanato, si strofinò il palmo su un pettorale e, velocemente, afferrò una bottiglietta da terra. Io mi avvicinai alla recinzione di ferro, le dita a incastrarsi in essa e lui che mi venne incontro bevendo un breve sorso.

Alla ricerca dell'albaWhere stories live. Discover now