34. Stessa stazione? - Pt. 2

460 40 45
                                    




"I can change everything about me to fit in"
— Mirrorball, Taylor Swift.


Roma.
Autunno.



L'idea di avere Elia e Leonardo nella stessa stanza non mi faceva stare tranquilla. Nemmeno l'idea di avere Mirella e Leonardo nella stessa stanza.

Avevo un pessimo presentimento, fortunatamente la presenza di Iolanda migliorava già qualcosa. Mi guardai allo specchio per la cinquantesima volta, pettinando i boccoli con una mano.

Leonardo mi aveva ammonito circa quattro volte sul fatto che fossimo in ritardo. «Aspetta! Inizia ad andare in macchina!» Gridai, innervosita.

Borbottò qualcosa e poi sentii il portone sbattere. Sentivo un indesiderato e immotivato senso di inadeguatezza, così come il bisogno di piangere e non scendere mai di casa.

Continuai a fissarmi allo specchio, fossilizzata nell'immagine sconosciuta di me, mi asciugai in fretta una lacrima. Mi suggerii di respirare piano e sorrisi forzatamente, «Stai facendo la cosa giusta.»

In macchina, io e Leonardo non parlammo quasi per niente. La mattina avevamo discusso, ancora e avevo pianto, ancora.

Parcheggiò a pochi passi dal locale. Nel togliere le chiavi dal quadretto, la luce sopra le nostre teste si spense, facendoci rimanere al buio. Prima di scendere, lui disse: «Per favore, cerca di non farti pregare per sembrare carina e simpatica.» E scese.

Lo guardai. Mi stava aspettando così da far credere che fossimo contenti di essere lì. Sospirai, scesi dall'auto, sbattei la portiera e gli sorrisi a labbra strette. Non appena abbastanza vicina, gli mormorai: «Ti va bene così, stronzo

Lo superai, nascondendomi nel cappotto e incrociando le braccia al petto per proteggermi dal freddo e dalle occhiate di Leonardo alle mie spalle. Girai l'angolo, li trovai tutti lì.

La famiglia di Leonardo che parlava con la mia famiglia, la comitiva di Leonardo e Iole che se ne stava a fissare tutti indispettita e disgustata, con la sigaretta tra le labbra. Mi fece sorridere automaticamente.

«Eccoli!», ululò Gian, un amico di Leonardo, e tutti cominciarono ad applaudire.

Mamma allargò le braccia per abbracciarmi, «Ciao, mamma.»

«Ciao, tesoro.» Mi strinse forte. Il suo profumo costoso e fruttato mi invase le narici. «Come stai?» Mi accarezzò le spalle con fare dolce.

«Bene, te?», guardai i suoi occhi vitrei e i suoi lineamenti morbidi, cercando un rifugio e familiarità che purtroppo non trovai.

«Bene, bene. Saluta papà, forza.» Le sorrisi brevemente e mi diressi da mio padre, che stava chiacchierando con mio zio Gianni e zia Bruna.

Abbracciai zio e zia, che disse che mi stessi facendo ogni giorno più adulta, più donna. Poi toccò a mio padre, fu un semplice abbraccio, conciso e sufficiente. «Come va? Al lavoro?»

«Tutto bene, grazie.» Quando feci per domandargli altro, Leonardo accorse per abbracciarlo.

Quasi, quasi ami più mio padre che me.

Sospirai e andai ad abbracciare i miei cugini. I gemelli, Filomena e Filippo, ormai quattordicenni, Valerio diciottenne e Mario di appena nove anni. Li abbracciai uno ad uno, era sempre una gioia parlare con loro, mi riempivano di domande e sembravano interessarsi davvero alle mie risposte.

Ci vedevamo praticamente quasi ogni fine settimana, soprattutto con Filo poiché amavamo fare shopping assieme. Era diventata bellissima, era anche fidanzata con un ragazzino della sua scuola. Filippo era diventato un bambino prodigio nello sport, doveva partecipare persino ai mondiali. Valerio, invece, dopo la maturità avrebbe aperto una sua officina, data la sua passione per le macchine e per le motociclette. Mentre Mario, nella sua timidezza, aspirava a diventare scrittore, mi aveva anche fatto leggere qualche suo racconto fantasy, era portato.

Alla ricerca dell'albaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora