4. Le tipologie variopinte del silenzio

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Dedicato a chiunque si sia sentito escluso, trascurato o non abbastanza bravo.
♥️



Ischia.
Estate.




Ho perso il conto di tutte quelle volte in cui finsi di stare bene.

A volte dirlo ad alta voce non è così facile come sembra. A dire il vero non è per niente facile, soprattutto guardare negli occhi la persona che te lo chiede. Ad essere ancora più sincera, le persone che me l'hanno chiesto — nel corso della mia vita — sono state poche. In tal caso, quando accadeva, la risposta era monotona: sforza un sorriso e annuisci.

"Non far sembrare che stare con loro sia più difficile di stare da sola."

Le mie amicizie sono sempre state uguali. Non mi divertivo mai, la loro compagnia non mi soddisfaceva. Ad un certo punto della mia adolescenza, prima di quell'estate, pensai di essere io il problema. Cominciai a pensare che, se non riuscissi a far affezionare la gente a me a tal punto da ritenermi una di loro, allora il problema ero solo io. In fondo, che necessità avevano gli altri a farmi sentire in quel modo?

La verità era che io non riuscivo a stare con gli altri, non riuscivo a farmi capire perché non capivo me stessa.

Mentivo spesso, ero diventata bravissima a dire bugie. Le raccontavo ai miei, soprattutto a mia madre. Lei era la prima che fingeva, fingeva di capirmi. Papà non c'era mai riuscito, non s'era manco mai sforzato. Ironico, vero?

«Dove vai?»

«A casa di Lidia.»

No, mamma, non vado da Lidia. Vado in libreria, vado lontano da 'sta città che puzza, vado lontano da camera mia.

«Ci vediamo per cena, non fare tardi.»

Nascere in una famiglia benestante non era poi così vantaggioso. Certo, avevo le cure dei medici più prestigiosi, avevo i controlli pagati a priori e ottimi rapporti col personale. Ma non avevo la cosa più importante: il calore di un abbraccio.

Da piccola pensavo che il mio cuore fosse così fragile a causa del poco amore che m'era stato riservato. Da piccola pensavo che un abbraccio di mamma, papà o mia sorella m'avrebbe guarita. Ero una bambina, ovviamente.

Era passato qualche giorno dall'ultima volta che ero uscita dalla Villa. Passavo la maggior parte dei pomeriggi in piscina o in camera a leggere.

Uno di quei giorni mi ritrovai in giardino, avvolta in un asciugamano con i capelli grondanti di cloro quando, da lontano, intravidi un telo che una volta era sicuramente stato bianco, ma col tempo era diventato sporco, s'era ingiallito.

Mi avvicinai, le piante dei piedi ad affondare nell'erba bollente. Mi inginocchiai e notai fosse una bicicletta. Il telo sollevò un polverone quando lo feci ribaltare per terra, scoprii una bici gialla, le ruote erano un po' afflosciate, ma ci potevo lavorare.

Nel giro di poche ore, verso le sei del pomeriggio, ero riuscita a gonfiarle e a dare una sistemata estetica: ci aggiunsi un cesto di vimini davanti al manubrio.

Corsi a farmi una doccia, un quarto d'ora dopo ero pronta a provarla. Dissi a mamma che sarei tornata presto, che tanto non potevo andare molto più lontana delle campagne, le ruote non avrebbero reso. Perciò mi sarei accontentata di una pedalata alle ultime luci del Sole, tra il grano e le praterie dei dintorni.

Alla ricerca dell'albaWhere stories live. Discover now