32. Sfiorare manco con una rosa

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Roma.
Autunno.




Il calore della tazza mi colpì in pieno viso mentre sorseggiavo una camomilla alle otto del mattino, prima di recarmi in ufficio.

Seduta al tavolo di casa, con Le città invisibili di Calvino tra le mani, leggevo coi pensieri occupati. Leonardo entrò in cucina, con il suo camice da tutti i giorni e il cappotto fra le mani.

Si avvicinò alla macchina del caffè, inserendo la cialda e sistemandosi, successivamente, i capelli biondi di lato. Lo percepii fissarmi di sbieco, ma non alzai lo sguardo. Girai una pagina, sospirando.

Nella quieta composta della nostra casa, Leonardo si avvicinò al tavolo, a me. Lo ignorai, sperando che quella fosse la volta buona che pronunciasse un "mi dispiace", ma non lo fece.

Con una mano a scivolare sulla superficie del tavolo, Leonardo si chinò per lasciare una scia di baci, dalla fronte sino alla guancia. Fece per poggiare le sue labbra sulle mie, ma io mi scostai, imperterrita.

In tutta risposta, lui proseguì a baciarmi la mandibola, il collo e sempre più giù. «Questo è il tuo modo di chiedere scusa?» Borbottai, allontandolo con il braccio.

«Scusa? Mi hai fatto dormire sul divano ed io dovrei chiederti scusa?» Chiese, con un tono divertito.

I miei occhi incontrarono i suoi, ma nessuna scintilla illuminò i nostri sguardi. «Lo dici davvero? Hai veramente il coraggio di dire questo?»

«Per cosa dovrei scusarmi? Per aver chiesto alla mia futura moglie di non tornare tardi a casa il sabato sera, visto che c'è il suo futuro marito che l'aspetta? Eh?» Domandò, con la fronte corrucciata e arrabbiato.

Rimasi in silenzio, fissandolo e basta, sperando capisse quanto sbagliato fosse tutto quello. «Allora, se la pensi così, non abbiamo niente da dirci.»

Ritornai a leggere, sorseggiando la mia camomilla.

Leonardo rimase in piedi, immobile a osservarmi come se fossi un cane bastonato, un'intrusa in casa sua. «Sai che c'è?», mi afferrò per il polso, togliendomi la tazza di mano, «Tu adesso la finisci di fare la stronza.»

Mi costrinse ad alzarmi dalla sedia, «Leonardo, mi fai male—»

Mi portò fino alla camera in cui lui non entrava da giorni, «Forse la finirai così», sbottò, spingendomi sul letto, «Dobbiamo sposarci e non scopiamo seriamente da tre mesi, almeno ti si leva l'acidità di dosso.»

«Ma io non voglio, devo andare a lavoro.» Feci per alzarmi ed andar via, ma Leonardo era testardo, e si era già tolto la maglia.

«Non me ne frega assolutamente niente. Almeno io sto provando a salvare un matrimonio!»

Detto ciò, prese a slacciarsi la cintura, per poi sovrastarmi. «Leonardo, non è il momento giusto, ti prego.»

«Per te non lo è, per una volta possiamo pensare per il bene di entrambi?», afferrò i bordi del mio jeans, intimandomi di levarlo. «Che tu sia d'accordo o meno, una scopata farà bene ad entrambi.»

S'incastrò veementemente nel mio corpo, schiacciandomi contro il materasso, premendo il suo viso sulla la mia spalla. Ad ogni spinta sentivo il bisogno di piangere, la mia voce interna diceva di credergli, che forse ci avrebbe fatto bene.

Ma più lo sentivo ansimare, più provava a baciarmi, più provavo dolore. E nella mia mente leggevo solo una scritta: "A tuo malgrado, sarò sempre innamorato di te, perché sono fermamente convinto di appartenerti."

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