13. Carpe diem

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Ischia.
Estate.



In quei giorni imparai la differenza tra rimanere soli e stare soli. Perché quando rimani da solo è perché gli altri lo hanno voluto, sono stati gli altri a lasciarti da solo. Mentre stare da soli è un concetto totalmente diverso, perché decidi tu di stare da solo, è la conseguenza alla compagnia: dopo aver passato un pomeriggio con una persona, è normale stare da soli.

Nella mia testa si ripetette in continuazione la frase che mi disse su quel marciapiede Elia, come un disco rotto, un frisbee che torna indietro. "Non devi avere paura di parlare se vuoi essere una mia quasi amica", più la ripetevo più assumeva toni diversi dalla volta precedente.

Mi chiesi cosa volesse dire, mi chiesi come avesse fatto a capirlo che avevo paura di aprire bocca. Allora è vero? È vero che mi si legge in faccia? Non ero mai stata una con la parola facile, una con cui attaccare bottone alla prima occasione.

Piuttosto ero quella che rimaneva in silenzio nell'angolo più buio e oscurato della stanza. Non perché non fossi capace di intraprendere una conversazione con una qualsiasi persona, ma perché ero spaventata da quello che una sola parola sbagliata poteva scaturire.

A me bastava l'intonazione, bastava un verbo o un'espressione diversa dalla mia aspettativa e sarei scappata. Mi avrebbero invasa mille pensieri che, a loro volta, mi avrebbero fatto dubitare persino della mia voce e di ogni piccolezza.

Ero una di quelle che si fasciava la testa prima di rompersela. Credevo di non essere inclusa nel mondo e di non sapermi includere. Avevo provato sulla mia stessa pelle quella sensazione di scomodità durante delle circostanze oggettivamente normali; come ad esempio ritrovarmi in un gruppo di persone ed avere il sentore di non essere presente, di non essere accettata quando, magari, a quelle persone manco importava.

Mi ero illusa che quella sensazione non sarebbe più tornata, che fosse temporanea e che lontana da Roma e dal mio quartiere non sarebbe potuta traboccare.

Elia mi chiamò all'una, avevo sentito il cellulare squillare prima di scendere a pranzare in giardino.

«Che c'è?» Chiusi la porta guardando se nel corridoio ci fosse qualcuno.

«Manco buongiorno si dice?», ribattette fingendosi deluso.

«Sono di fretta. Buongiorno. Cosa c'è?», poggiai la schiena sulla superficie della porta.

«Stasera suoniamo ad una festicciola, devi venire», aveva ancora la voce assonnata, segno che fosse sveglio da poco.

«Festicciola?» Sospirai, «Descrivimi il tuo prototipo di festicciola.»

«È una cagata. Ci saranno solo vecchi e qualche famigliola in vacanza. Il padre di Gaetano la fa ogni anno per pubblicizzare la sua pasticceria.» Sembrò stiracchiarsi quando finì di parlare, «Non ci viene mai nessuno di solito.»

«È un peccato perché siete parecchio bravi.» Borbottai, «Ti faccio sapere fra poco.»

«Se mi dai un coprifuoco cercherò di rispettarlo e di portare Cenerentola a casa il prima possibile.»

«Ah-ha, stupido.»

Elia ridacchiò, «Non dimenticarti del nostro accordo.»

«No, non mi dimentico.» Sentii i miei chiamarmi ancora dal piano inferiore.

«Volevo solo avvertirti, ciao.»

«Ciao.»

«Ciao.» Continuò. Lo vidi sorridere con quell'accenno di mezza malizia.

Alla ricerca dell'albaWhere stories live. Discover now