Epilogo

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Consigliata la lettura ascoltando l'apposita playlist 🎶

Ci siamo.
Questa è la nostra fine, ma non è detto sia quella definitiva.
Elia ed Isabella sono dentro di voi.
Vi ringrazierò sempre per come li avete amati quanto li ho amati io.



Roma.
Primavera.



Avevo insistito così tanto per farmi portare ad Ischia. Volevo trascorrere l'estate lì, con Elia — che non era ancora mio marito, ma non m'importava perché a me bastava sapere che fosse con me —, con la creatura che avevo nel grembo e con il buon umore che mi metteva quell'isola.

Lo avevo pregato insistentemente, sapendo che non ci ritornasse da anni, tantissimi anni. Si era isolato dalla sua stessa isola, fingendo che sul mappamondo non esistesse. Io che su quell'isola mi sentivo più viva e lui che aveva anche solo il timore di pensarla.

Sapevo quanto fosse difficile per lui. Ma oltre al mio di desiderio — quello di far conoscere ai miei figli quell'isola — c'era la mia voglia di far riconciliare Elia con la sua famiglia. Ne aveva il bisogno, non lo diceva, ma lo sapevo meglio di qualsiasi altra cosa.

Elia e la mia famiglia avevano parlato. Non so cosa si dissero perché io non volli assistere, ma, non so con quale magia, le cose riuscirono a trovare un equilibrio dopo quella discussione. Non ci sentivamo tutti i giorni, né ci vedevamo, ma almeno erano presenti. Avevo bisogno di mia mamma più di ogni altra cosa durante la gravidanza, avevo bisogno di consigli, di aiuti.

Il pancione cresceva a dismisura. Elia aveva compiuto gli anni a fine gennaio ed io a fine marzo. Ad aprile scoprimmo il sesso della nostra creatura: una bellissima bambina. Elia aveva pianto, ma non gli piace l'idea che si sparga la voce, quindi non ditelo a nessuno. Pianse proprio come un bambino, una volta tornati a casa, mi aveva abbracciata forte, fortissimo, dicendoci che non ci credeva, che non vedeva l'ora di conoscerla, di insegnarle a nuotare, cantare, ballare, suonare, vivere. Ed io più lo guardavo innamorarsi di nostra figlia, più mi innamoravo di lui.

Avevamo cominciato ad architettare qualche idea per la cameretta della nostra piccola — Elia la chiamava così, la nostra piccola —, io volevo fosse tutta rosa, rosa pastello. E sul soffitto dovevano esserci le stelle che si illuminavano, e doveva avere tanti giocattoli, tanto amore e tanti baci.

Il mese peggiore della gravidanza fu maggio. Il fatidico quinto mese. Arrivavano i primi calcetti, le prime notti insonne e i primi dolori. «Elia!», gridai, dalla camera da letto, una sera, «Elia, corri!»

Lo sentii correre dal salotto, con i capelli disordinati e la t-shirt stropicciata, «Cosa c'è? Stai male? Ospedale?» Disse, velocemente.

«No», gli indicai la pancia, «Guarda, si vede il piedino!», risi, euforica, «Affacciati, muoviti.»

Elia, un po' scettico, si sporse per ispezionare il mio ventre, io gli indicai lì dove vedevo la forma morbida della sagoma di un piede. «Cristo, è vero», mormorò, guardando più attentamente.

Nelle notti in cui la nostra piccola non mi faceva dormire, iniziarono le loro prime chiacchierate. Elia mi trascinava sul suo petto, cullando sia me che la bambina. Accarezzò in punta di dita il perimetro del grembo, mi lasciò un bacio sulla fronte. «Amore di papà, stai facendo innervosire la mamma, e a noi non piace quando la mamma è nervosa, vero?», non rispondeva nessuno, eppure lui continuava, «Ecco, hai capito bene. Quindi fai la brava, dormi un po' che devi restare lì dentro ancora per tanto tempo, anche se vorrei averti già qui e mangiarti di baci.»

Proseguiva per ore intere, almeno finché io non prendevo sonno.

Un pomeriggio di fine maggio eravamo entrambi seduti sul divano, col caldo dell'imminente estate a farsi spazio tra l'asfalto delle strade di Roma e tra le mura di pietra della città. Stavo scrivendo i nomi delle famiglie d'affidamento degli ultimi mesi quando mi persi a guardare fuori dalla finestra. Il cielo era azzurrissimo, tanto da far male alla vista.

Alla ricerca dell'albaWhere stories live. Discover now