CAPITOLO 11

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Marlene si finì di cambiare. Il suo turno di lavoro era appena terminato.

Erano le sette di mattina e si sentiva terribilmente stanca. Non vedeva l'ora di andare a casa e dormire tutto il pomeriggio.

La vita da infermiera era sfibrante e c'erano giorni che la mandavano a tappeto più di altri. Per tutte le ore di servizio non aveva pensato ad altro se non ai suoi pazienti, ora che invece la mente si sgomberava dal peso di quella responsabilità nel suo cervello tornava a far capolino un'idea fissa: Amos White.

Sembrava esser diventato la sua nuova ossessione.

Se da una parte si sentiva una completa idiota per la sua reazione esagerata, dall'altra continuava a sentirsi ferita per la scena a cui aveva dovuto assistere.

Non riusciva a spiegarsi quei sentimenti. In fondo non conosceva affatto Amos e tanto meno poteva accaparrarsi qualche diritto nei suoi confronti, eppure era riuscito a fissarsi nei suoi pensieri e questo la destabilizzava profondamente.

Dopo un'imprecazione a denti stretti, afferrò la borsa ed uscì dal St. John Hospital. Aveva la macchina parcheggiata poco lontano.

Non appena varcò le porte scorrevoli la luce del giorno la investì costringendola a chiudere gli occhi e coprirseli con una mano. Era entrata col buio e usciva con la luce.

Il cellulare le squillò, perso nei meandri della borsa e fu costretta ad appoggiarsi ad una panchina per rovistare al suo interno. Quando trovò il dannato dispositivo fissò il display per vedere chi la stesse chiamando a quell'ora.

Era Victoria.

Rispose nonostante non fosse nelle migliori condizioni per far una chiacchierata. «Ehi, Vicky.»

«Marr, ho bisogno di vederti.» La voce rotta dai singhiozzi della mannara fece subito allarmare l'amica. Victoria non era una tipa che piangeva spesso. In tutti quegli anni di conoscenza l'aveva vista si e no farlo un paio di volte e tutte per film strappalacrime. Per il resto, era una tipa tosta che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno e che difficilmente si riusciva a ferire.

«Victoria, che succede? Perché piangi?»

Al di là della cornetta, l'amica scoppiò nuovamente a piangere. «Dove sei?»

«Sono fuori dall'ospedale. Ho appena finito un turno.»

«Ci vediamo al Chandler Park?»

Una scarica attraversò interamente Marlene. La mano le tremò giusto un attimo prima di ricordare a se stessa che era giorno e che nulla avrebbe potuto aggredirla alla luce del sole. «Arrivo, tesoro... arrivo.»

Chiuse la chiamata e andò rapidamente verso l'auto. Uscì dal parcheggio e si immise nel traffico. Era un orario di punta, molti andavano al lavoro. Le strade erano trafficate. Ci mise il doppio del tempo per raggiungere il parco e quando trovò parcheggio scese dall'auto con un pizzico di timore in corpo.

La sera prima, in quel posto, aveva avuto un incontro ravvicinato con un orso. Un gigantesco e feroce orso, che con ogni probabilità era un mannaro.

Se la sarebbe ricordata tutta la vita quella bestia, con un solo occhio che la fissava come se volesse trapassarla.

Victoria sedeva su una delle innumerevoli panchine disseminate per il parco, in mano teneva un fazzoletto stropicciato e sulle ginocchia aveva un intero pacchetto di kleenex. Quando i loro sguardi si incontrarono, la mannara scoppiò a piangere di nuovo e affondò il viso nelle mani.

Marlene non poté far altro che avvicinarsi, sedersi al suo fianco e carezzarle circolarmente la schiena. «Che succede, tesoro? Che hai?»

«Oh, Marr... sono così stupida.» Con uno scatto estrasse l'ennesimo fazzoletto e si soffiò il naso.

ARTIGLI - BACIO RUBATOWhere stories live. Discover now