CAPITOLO 18

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Con un ultima pennellata, Marlene terminò il dipinto che aveva cominciato quel pomeriggio. Si era ispirata a un paesaggio molto vicino a casa sua, quella in Scandinavia e mentre il pennello aggiungeva con tocchi rapidi e precisi di colore, per un attimo si era sentita più vicina ai suoi genitori. A guardar quel luogo conosciuto e vissuto per anni, aveva sentito la stretta morsa della nostalgia.

Si era buttata a capofitto nella pittura anche per sfuggire ai pensieri riguardanti la sera precedente. Dipingendo, la sua mente si era completamente svuotata e aveva passato ore piacevoli davanti al cavalletto, interamente immersa nelle sfumature delle sue emozioni impresse su tela.

Peanut le si era appisolata in braccio e più di una volta aveva dovuto pulirle il pelo da qualche schizzo di colore. Ormai quella gatta era abituata ai momenti di estro della padrona e a quanto pareva, trovava rilassante dormirle nella faldata.

Marlene posò il pennello sgranchendosi le braccia. Stare troppe ore in una posizione le faceva venire un mal di schiena allucinante.

Anche Peanut allungò le zampette e sbadigliò, scendendo con un balzo e andando alla ciotola del cibo. Insomma, i suoi cinque chili di ciccia, avevano una motivazione. O dormiva o mangiava. Bella la sua vita da gatto.

«Hai già mangiato. Quanto ancora vuoi mangiare? Tra poco rotolerai.»

La gatta in tutta risposta miagolò tornando a fissare la ciotola. Marlene scoppiò a ridere e alzando gli occhi al cielo prese una manciata di crocchette lasciandole cadere nella ciotola. «Fattele bastare fino a cena. Cicciona.»

Peanut iniziò a mangiar di gusto, alternando crocchette ad acqua. Ad ogni boccone faceva le fusa. Era rilassante vederla così.

Marlene si allungò verso il frigo afferrando una bottiglia di acqua fresca e ne sorseggiò il contenuto con ingordigia. Pitturare le metteva sete, neanche avesse appena tenuto una conferenza.

Il cellulare squillò rompendo il silenzio e la quiete che in quel giorno di riposo si era riuscita a creare. Lo raggiunse sperando vivamente che non fosse l'ospedale per qualche turno extra. Esitò un attimo prima di rispondere, non conosceva quel numero.

«Pronto?»

Al di là della cornetta ci fu un mugolio di dolore. «Marlene?» La voce calda e intensa di Amos la fece sobbalzare e fu costretta a reggersi alla sedia per non cadere.

Una vampata di calore le incendiò il viso.

L'aveva chiamata. Non ci poteva credere.

Dopo quello che era successo la sera prima, non pensava che avrebbe più pensato ad avvicinarla. Era scappata come una ladra. «Chi parla?» Finse di non riconoscerlo. Non voleva pensasse che fosse una povera disperata in cerca di un uomo.

Si sentì una risata trattenuta, sostituita da un ansimo affaticato. «Sono Amos.»

«Ah... ciao, Amos. Dimmi pure.» Essere fredda e distaccata non era il suo forte.

«Marlene... ho bisogno del tuo aiuto. Del tuo aiuto professionale

La fata si accorse subito che la voce del mannaro non era la solita di sempre. Era affaticato, parlava con affanno e respirava a scatti e rumorosamente. «Che succede, Amos?» domandò subito, allarmata.

«Ci hanno attaccato e,» il pasura dovette riprendere fiato. La ferita alla schiena gli strappava il respiro. Sentiva la fronte imperlata di sudore per lo sforzo. Non era certo di restare cosciente a lungo. «Io e un mio uomo siamo feriti.»

Marlene sapeva che non potevano andare in ospedale. Le creature sovrannaturali avevano solitamente medici personali per le loro questioni. Se la stava chiamando, era veramente nei guai. Se non sapeva a chi affidarsi oltre a lei, forse nel branco non c'era un medico. «Dimmi dove siete. Arrivo subito.»

ARTIGLI - BACIO RUBATOWhere stories live. Discover now