CAPITOLO 45

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Marlene sospirò annaspando e riaffiorando dal sonno. Due zampine pelose le premevano con forza sulla faccia, spingendola lontano dal cuscino.

Si stropicciò gli occhi cercando di spostare Peanut ma la gatta miagolò stirando le zampe posteriori e spingendole nuovamente quelle anteriori sul viso.

«Cicciona che non sei altro, mi rubi perfino il cuscino.» brontolò Marlene, afferrandola per la pancia e tirandola verso di se. La tenne stretta affondando il viso nella pelliccia, quando chiuse gli occhi alla mente le tornò quella notte: il parco, lei che scappava, gli occhi della bestia e poi gli occhi di Amos, quella folta pelliccia morbida sotto le sue dita.

Le lacrime le scivolarono sul viso mischiandosi al pelo di Peanut che ancora una volta usò le zampine per allontanarla da se. Da quando era tornata a casa quella mattina orribile, Peanut era stata la sua ombra. Non appena si sedeva le saltava addosso, si strofinava contro di lei come se fosse innamorata e si lasciava andare a lunghissimi momenti di fusa. Sicuramente era opera del marchio.

Tranne quella mattina. Quella mattina la voleva fuori dal letto.

«Ho capito. Hai fame. Strano, eh?» Parlare con lei l'aiutava a mitigare il forte senso di vuoto che sentiva dentro. Dopo tutto quello che era successo, si era chiusa in se stessa e aveva preferito buttarsi capofitto nel lavoro. Infatti in quei dieci giorni, aveva fatto un sacco di straordinari, anche per via della morte di Nick.

Nonostante la sua dipartita non l'avesse sconvolta così tanto, la sua assenza aveva messo a dura prova il St. John Hospital che con sempre meno personale, era stato costretto a raddoppiar i turni dei già oberati colleghi. A quanto pareva però, presto ci sarebbero state nuove assunzioni. A Marlene tutto quel lavoro in più non dispiaceva. Oltre ad aumentar la paga a fine mese, le faceva staccar la spina dall'incessante pensiero di Amos.

E quel pensiero era costante, fisso, doloroso. Le martellava in testa con tenacia secondo dopo secondo, scandendo le sue giornate e alternando i suoi momenti di pianto a momenti di pura depressione dove a volte si ritrovava a far cose in maniera quasi automatica, senza rendersene conto.

Non c'era attimo che non pensasse a lui, alle sue dolci attenzioni, al suo carattere irriverente, al suo tocco bollente. Eppure, nonostante quei pensieri così pieni di sentimento inequivocabile verso di lui, Marlene continuava a respingere ciò che provava con tutte le sue forze, trincerandosi dietro milioni di barriere.

La paura di soffrire, di lasciarsi completamente andare, di vivere al cento per cento una storia la frenava. Si sentiva in trappola, spaventata, esposta; fragile, in completa balia del suo cuore, innamorata.

Si mise a sedere sul letto, fissando tutt'attorno la distesa di fazzoletti sporchi. Aveva pianto tutte le lacrime che aveva in corpo; aveva pianto così tanto da sentirsi vuota, priva di emozioni.

Nel giorno che quella Nebbie era piombata in camera di Amos, lei aveva perso una parte del suo cuore. Lo aveva lasciato lì, in quella stanza, infilzato da mille aghi.

Lui aveva cercato di parlarle. Più di una volta si era avvicinato per spiegarsi ma lei non ci era riuscita. Era scappata. Questo lo sapeva fare bene. Era la cosa che le riusciva meglio: scappare.

Non se la sentiva di aver un confronto con lui. L'aveva delusa. Si era sentita ferita, umiliata. Lei voleva a fianco un uomo sincero, che le dicesse tutto senza paura di una sua possibile reazione. Invece Amos non lo era stato.

Insomma, quale donna sana di mente non vorrebbe sapere se il proprio uomo sta per diventare padre da un'altra donna? Lei e Amos ancora non erano stati nulla, non fino a quella notte. Quella notte tra loro era cambiato tutto. Alla fine avevano fatto l'amore, si erano dichiarati reciprocamente e lui l'aveva marchiata. Quel marchio che sentiva ancora bruciarle addosso, come un indelebile segno della sua presenza.

ARTIGLI - BACIO RUBATOWhere stories live. Discover now