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Edith

Era una delle notti più lunghe della mia vita, quella che stava scandendo il tempo come un contagocce, minuto per minuto, secondo per secondo. Ogni goccia era un estenuante tortura.
Avrei dovuto dormire, perché era quello che facevano le persone normali, e invece mi stavo arrovellando il cervello alla ricerca di una spiegazione, un motivo che mi spingesse a credere che Heath mi avesse chiamata criminale solo per scherzo, e non perché mi avesse voluto consegnare alla polizia. La sua risata era tutto ciò che mi rimbombava nella testa, assillandomi come una filastrocca inquietante, ed ero preoccupata. Avevo provato a forzare la serratura, ma non ero mai riuscita ad imparare correttamente come si facesse, poi avevo provato ad uscire dalla finestra che, però, era troppo alta. Infine mi ero arresa. Mi ero seduta sulla panca di legno e mi ero portata le mani tra i capelli, ansiosa. Ero intrappolata in quello spogliatoio, e non sapevo cosa sarebbe successo non appena Heath fosse venuto a prendermi. Avrei trovato soltanto lui o anche qualche spiacevole sorpresa?
Perché mi ero fidata? Perché non ero scappata e basta?
Numerose domande mi passavano per la testa, ma nessuna aveva una risposta logica. Il mio comportamento era stato istintivo e le mie azioni poco soppesate, e adesso mi sentivo soffocare.
L'imprevisto era quello che mi spaventava di più, perché amavo le cose precise e organizzate nel minimo dettaglio, perciò quella notte mi sembrò veramente lunga. Cosa avrei raccontato se mi avessero arrestato? Svuotare il sacco e sciogliere la lingua dal vincolo della menzogna sembrava un'opportunità unica, perché finalmente sarei stata libera dal peso della mia condizione, ma a cosa sarei andata incontro? Avendo occultato una verità di notevole peso, avendo cambiato identità e assistito ad un omicidio avevo commesso diversi reati, e sarei stata condannata in ogni caso.
«Pensa, dai.» Mi massaggiai le tempie che iniziavano a pulsare. Rimuginare sulle scelte compiute non mi avrebbe offerto una soluzione definitiva.
Sospirai, guardandomi attorno alla ricerca di un'illuminazione, poi mi resi conto di aver schiacciato qualcosa sotto la coscia, perciò l'alzai e trovai il cellulare che Heath mi aveva prestato. Lo presi, osservandolo a lungo, e provai a convincermi che se avesse capito seriamente chi io fossi stata non me lo avrebbe mai lasciato, come avrebbe insistito per portarmi a casa, oppure non avrebbe esitato a consegnarmi. Heath era dalla mia parte, continuavo a ripetermi, e stava solo scherzando perché gli piaceva essere ironico. Era un ragazzo, d'altronde.
Forse avevo ancora l'opportunità di cambiare le cose, in quest'ultima ora che mi era rimasta prima dell'arrivo di Heath. Se gli avessi dimostrato di avere una casa, una solida vita ed identità non avrebbe sospettato di me, e probabilmente non avrei dovuto scappare subito a Manhattan da mia madre. Non avrei potuto piombare nella vita di Jane di punto in bianco e senza un piano.
Adesso avevo trovato una base -il Queens- e avrei dovuto integrarmi come avevo sempre fatto in ogni quartiere: avrei cercato un impiego diverso da quello della spogliarellista, meno losco di tutti quelli dei nightclub in cui avevo lavorato e, intanto, avrei pensato ad una soluzione definitiva. Sapere di mio padre in carcere mi aveva rassicurato, perciò mia madre avrebbe potuto aspettarmi per qualche altra settimana. Nell'attesa avrei scelto un nuovo nome e cognome, avrei studiato un passato credibile, e avrei tentato di procurarmi gli agganci giusti in modo tale da sviluppare una rete di conoscenze che avrebbe potuto tutelarmi qualora mi fossi inciampata, poiché bastava un attimo per cadere nella mano sbagliata di quel gioco che era la mia vita.
Improvvisamente mi venne un'idea, e io che odiavo gli imprevisti mi ritrovai ad amarli. Avevo un'ipotetica strategia in mente, perciò mi mobilitai a mettere in atto la prima mossa: recuperai il mio vecchio giubbotto di jeans e frugai nella tasca alla ricerca del foglietto riportante il contatto di Ivor Blake. Lo sfilai, grata di non averlo perso quando ero svenuta, e lo srotolai per leggere il numero completo, quindi presi il cellulare di Heath e lo sbloccai. Andai sulla tastiera, digitai cifra per cifra, e pigiai sulla cornetta verde facendo partire la chiamata. Uno, due, tre squilli e nessuna voce maschile dall'altro capo dello smartphone, però non mi agitai: Ivor lavorava in un locale notturno, da quel che ricordavo, per cui mi avrebbe risposto. Perché era sempre stato reperibile. La prima volta, lo avevo conosciuto ad una festa organizzata da una confraternita accanto al mio college -la mia coinquilina era un tipo frizzante- e ci eravamo subito trovati. Più avanti, dopo aver sentito al notiziario che la polizia stesse ricercando mio padre, lui mi aveva aiutata a cambiare identità -ero diventata Blue Gage - e da allora la mia vita si era trasformata in un cambiamento continuo. Non mi era mai dispiaciuto, ad essere sinceri. O, perlomeno, sino alla sera a Chicago di qualche giorno prima.
«Pronto?» Al quarto squillo rispose.
«Ciao, Ivor. Sono Elle Hunt, non so se ti ricordi di me...»
Nell'attesa che replicasse mi mordicchiai le pellicine del pollice, sentendo la preoccupazione salire quando: «Elle Hunt
«Si, Elle Hunt, mi hai aiutato a cambiare identità lo scorso anno. Ci siamo conosciuti al college tempo fa e ci siamo rivisti a Chicago. Tu eri in vacanza con i tuoi amici.» Provai a spiegargli nella speranza che si ricordasse, anche perché avevamo passato tre giorni divertenti insieme. Ci eravamo incontrati per la seconda volta al RedMoon, il locale dove lavoravo prima che si scatenasse il caos nella mia vita: un suo amico, Maicol, non aveva fatto sesso per più di sei mesi e la sua compagnia si era chiesta se non fosse diventato gay, quindi insieme -lui e il gruppo- avevano deciso di portarlo da me, da noi, e soltanto a fine serata si era scoperto che non fosse stato omosessuale. Non era riuscito a dimenticare definitivamente la sua ex ragazza, che lo aveva lasciato con un bel paio di corna, perciò non si era ancora sentito di andare a letto con altre, anche se lei se lo sarebbe meritato. Non ero stata io a deliziarlo o disgustarlo - quello dipendeva dai punti di vista- della mia presenza, però ci eravamo scontrati con Ivor per sbaglio mentre stavo servendo ai tavoli, e per farsi perdonare mi aveva invitato a pranzo con i suoi amici il giorno successivo. Io, essendo stata sempre sola e, ultimamente, isolata dal resto dei miei coetanei avevo accettato, ma non era successo nulla tra noi se non un bacio. Ovviamente, alla luce dei fatti, non eravamo mai andati oltre e non ci eravamo legati perché sapevamo entrambi che, presto, quel momento di euforia sarebbe finito. Al contrario di quanto la sua compagnia avesse pensato, io ed Ivor eravamo diventati realmente ottimi amici, e una sera al chiaro di luna, dopo un barbecue, mi ero lasciata sfuggire qualcosa sulla mia condizione e lui mi aveva consigliato di cambiare identità se avessi voluto soggiornare ancora in Chicago. Sarebbe stato più sicuro, esser un'altra persona, se avessi voluto evitare qualsiasi forma di rintracciabilità.
«Sky Dyer.» Era la seconda identità che mi ero fatta procurare prima di finire a lavorare per il RedMoon. «Adesso mi ricordo di te. Ci siamo divertiti un casino con te, io e i miei amici.» Lo sentii sorridere, e io con lui. Ero stata proprio bene con loro. Avrei potuto reintegrarmi con il suo gruppo, magari. «Mi ero solo dimenticato che tu fossi Elle, adesso. Avresti potuto dirlo subito e mi sarei risparmiato la figura di merda.»
«Regola numero uno: dopo che hai cambiato identità, cancellare ogni traccia della precedente. E questo implica di utilizzare il nome nuovo anche con i conoscenti.» Recitai le parole che mi aveva detto dopo avermi stampato una carta d'identità, una patente e un passaporto falsi.
«Giusto. Vedo che hai seguito alla lettera i miei consigli, dato che poi sei letteralmente sparita.» Sentii un fruscio dell'altro capo del telefono, e la musica che prima avevo udito in sottofondo si fece sempre più lontana. Doveva essere nel retro del locale, adesso.
«Lo so. Ti disturbo?» Cambiai discorso perché, infondo, non lo avevo chiamato per ripercorrere le poche settimane trascorse insieme.
«Sto lavorando, ma mi sono fatto sostituire da una mia amica. Dimmi tutto.»
«Fai ancora documenti falsi oppure sei diventato un ragazzo a posto?» Scherzai, arrivando al dunque.
«Posso fare un'eccezione per te, ma spero che non ti sia fatta vedere da nessuno qui, perché non so come potresti spiegare il perché tu abbia deciso di cambiare il nome e l'estetica senza destare troppi sospetti.» Replicò autoritario. «Ma tanto dopo essere diventata Elle sei sparita, e - cazzo- non ti ho più vista pur alloggiando nella tua stessa zona. Perciò questo problema non sorge, vero?»
«No, assolutamente.» Mentii sfoggiando un sorriso falso, seppur consapevole che non mi potesse vedere.
Heath mi aveva conosciuta, e purtroppo o per fortuna si era reso disponibile, ma non gli avevo rivelato nulla di rilevante. Non mi aveva chiesto nemmeno come mi chiamassi, e questo bastava per rassicurarmi. Avevo ancora una tabula rasa davanti, e avrei potuto giocare un'ottima partita.
«Perfetto. Allora dopo aver cambiato look e scelto un nome decente, raggiungimi al Saturn verso l'una domani sera. Finisco il turno a quell'ora. Vieni al bancone, e se non mi vedi chiedi in giro, ovviamente.» Mi istruì e annuii con il capo, annotando mentalmente il nome del locale.
«Ci vediamo domani, allora.»
«Sicuro, adesso ti devo lasciare. Mi ha fatto piacere risentirti
«Anche a me.» Ed era la verità. «Ciao, Ivor.»
«A presto, Elle.»
Dopo averlo salutato chiusi la chiamata, fissando lo schermo vuoto per qualche secondo, sospirando, infine controllai l'orario, e mi resi conto di avere circa un'ora a disposizione. Avrei potuto riposarmi, ma ormai non ne valeva la pena perché mi sarei svegliata con un mal di testa allucinante, e l'ultima cosa che volevo era stare male anche il giorno seguente.
Mi alzai dalla panca, sgranchendomi collo e gambe, quindi andai verso il bagno e con piacere scoprii ci fosse una doccia. Era proprio uno spogliatoio funzionale, accidenti. Accanto al box di vetro, un lavabo con sopra appeso uno specchio, perciò mi avvicinai e osservai la figura riflessa. Avevo le occhiaie, i capelli arruffati, gli occhi rossi perché le lenti a contatto marroni mi avevano irritato il bulbo, e il poco trucco che avevo era sbavato. Ero indecente, e mi chiesi come Heath avesse potuto starmi vicino senza spaventarsi. Sembravo seriamente disperata, e dovevo avergli fatto veramente pena.
Indugiai per qualche secondo sul mio aspetto, scrutando quella che sarebbe stata Elle Hunt ancora per poco, e decisi di farmi una doccia veloce. Mi avrebbe aiutata a pensare a chi avrei voluto essere a partire dalle ore successive.
«Magari una ragazza normale.» Borbottai spogliandomi, prima la maglia sporca di sangue, poi i jeans, le scarpe e i calzini, infine l'intimo. Girai la manopola dell'acqua calda, ed entrai nella doccia, chiudendomi dentro di essa. Lo scrosciare delle piccole goccioline contro il mio corpo mi rilassò, e gemetti per il piacere. Ne avevo davvero bisogno.
Mi insaponai con il bagnodoccia che era appeso alla mia sinistra, e mi godetti la piacevole sensazione del sapone contro la pelle, pensando involontariamente ad Heath. Proprio non riuscivo a capire cosa l'avesse spinto a restarmi accanto, stavo ancora cercando di smascherare l'inganno, eppure questo non c'era. Incredibile. Vivevamo in una società dove la solidarietà era solo un ricordo lontano, e nella quale tutti ostentavano le proprie ricchezze solo per il gusto di sentirsi superiori, e lui era rimasto altruista.
Mentre sciacquavo il mio corpo capii cosa avrei fatto a partire da quella stessa mattina: mi sarei fatta portare da Heath nel centro della città, avrei cercato prima un parrucchiere e poi un negozio di vestiti, mi sarei fatta carina, quindi avrei pensato ad un nuovo nome e avrei provato a trovare un lavoro per guadagnare qualcosa.
«Bene così.»
Dopo aver appurato di essere pulita, con i capelli e il corpo grondanti d'acqua, uscii dalla doccia e afferrai su una pila di asciugamani quello in cima, che profumava di ammorbidente, e mi avvolsi con esso. I dipendenti erano fortunati ad aver trovato un posto del genere, constatai mentre mi infilavo le scarpe da ginnastica ai piedi, perché avevo lasciato i vestiti puliti nello zaino sulla panca, e mi dirigevo nell'altra stanza.
Tamponando i capelli svoltai a destra, canticchiando una canzone che mi era ritornata in mente dopo anni, ma quando alzai il capo davanti a me, per poco non morivo di paura. Sobbalzai, gridando per lo spavento e urtando gli armadietti con la schiena, e mi portai una mano sul petto.
«Ma cosa sei?! Perché cazzo sei qui?!» Il cuore pulsava incessantemente. «Mi hai fatto prendere un infarto.»
«Come sei drammatica.»
Heath, che era rimasto nella penombra, si fece avanti con un sorriso stampato in volto, e il mio primo istinto fu quello di tirargli un pugno, però ritenni di placarlo.
«Ti sto odiando, sappilo.»
Sbuffai raccogliendo l'asciugamano dei capelli che mi era caduto per terra, gettandolo sulla sedia e avanzando verso Heath, e lo oltrepassai per prendere l'intimo e un vestitino nero con le stampe floreali. Sarei morta di freddo.
«Ma se sono fantastico.» Si coricò sulla panca come se niente fosse, portandosi le mani dietro la testa e piegando le gambe.
«Devo cambiarmi.» Dichiarai, raggiungendolo, e gli toccai una polpaccio con il mio ginocchio per invitarlo a spostarsi.
«Cambiati.»
Heath sollevò leggermente il capo, guardandomi divertito e con aria di sfida, e io borbottai qualcosa di sconnesso perché iniziava ad irritarmi seriamente. Finché era stato disponibile e rimasto nel suo mi era andato bene, però adesso si stava prendendo troppa confidenza e mi stava innervosendo.
«Okay.» Mi arresi portando le mani sul seno, sul bordo dell'asciugamano. «Solo non eccitarti troppo.» Tagliai corto privandomi del tessuto con il quale mi ero avvolta, facendolo cadere lungo le gambe senza vergogna; avevo fatto la spogliarellista, e non mi sarei scandalizzata sicuramente se lui avesse visto il mio corpo, anzi sarei stata ipocrita se mi fossi imbarazzata del mio aspetto.
«Sei impazzita?!»
D'altra parte Heath si coprì immediatamente gli occhi, forse sorpreso per la mia audacia, e mugugnò qualcosa di incomprensibile mentre io ridevo di gusto.
«Come se ti dispiacesse vedere un po' di nudità.» Commentai infilandomi le mutande, legando il gancetto del reggiseno e indossando il vestito.
«No, non mi dispiace affatto, ma sono uno che ama la privacy e odio violare quella altrui.» Heath allargò le dita per vedere se fossi vestita o meno, e quando gli assicurai di essere a posto, ritornò in piedi, accostandosi a me.
«Perché sei qui?»
«Non riuscivo a dormire. Avevo l'ansia che potessero scoprirti e di essere licenziato.» Mi confessò mentre andavo a recuperare gli indumenti sporchi riversati sul pavimento del bagno e: «Invece noto che te hai fatto proprio come se fossi a casa tua.»
«Ovviamente. Ti sei preoccupato per niente.» Gli sorrisi. Ormai aveva capito che fosse inutile costringermi a restare immobile per più di cinque minuti, ma avrebbe dovuto anche sapere che non lo avrei messo nei pasticci. Non volontariamente, almeno.
«Mi porti a fare colazione?» Gli chiesi sfacciatamente sistemandomi i capelli bagnati da un lato, spostandomi infine verso l'uscita. Mi sentivo soffocare in questo posto, e avevo bisogno assolutamente di andarmene, il ché era buffo considerando che lo avessi pregato di farmi restare però, quando mi veniva in mente un piano, non vedevo sempre l'ora di metterlo in pratica.
«Sei maleducata, almeno chiedi per favore.» Si lagnò tenendo aperta la porta mentre gli domandavo la cortesia di andare a fare colazione insieme.
«Adesso si che ti accompagno, ma poi me la paghi tu.»
«Speravo lo facessi tu.»
Aspettai che Heath chiudesse il negozio, attivasse l'antifurto e che mi seguisse lungo il viale che avevo iniziato a percorrere, quindi giocherellai con la fibbia dello zainetto che pendeva vicino alla mia spalla, e rabbrividii quando una folata di vento mi colpì.
«Tieni.» Heath, che adesso era davanti a me, mi porse una felpa verde che esitai ad accettare.
«Ho il giubbotto di jeans.» Gli dissi sollevando il capo e osservandolo negli occhi che mi stavano già scrutando intensamente.
«Ma la felpa ha il cappuccio, così puoi coprirti i capelli umidi, altrimenti ti ammali.» Effettivamente aveva ragione e, stranamente, mi sentii in difetto. Mi morsi il labbro inferiore, e alla fine mi arresi afferrando l'indumento che mi aveva offerto.
«Grazie.»
Indossai la felpa per la testa e mi tirai su il cappuccio, che coprì i miei capelli rossi, e infilai le mani nelle tasche.
Aveva un ottimo profumo, che doveva essere la colonia di Heath, quindi mi voltai nuovamente verso di lui mentre riprendevano a camminare in silenzio.
Per la seconda volta lo osservai a lungo, prima le sue gambe alte fasciate da un pantalone della tuta nero, poi la felpa bianca che copriva le spalle larghe -andava sicuramente in palestra nel tempo libero- e i capelli mossi e neri, più lunghi sul ciuffo e corti lateralmente. Mentre mi rendevo conto di quanto fosse piacevole la sua vista, mi ritrovai a chiedermi ancora il perché non mi avesse fatto troppe domande, e il perché stesse passando del tempo con me piuttosto che dormire; a volte mi sembrava persino che mi stesse aiutando perché conoscesse già il casino che era la mia vita. Arrivava sempre nel momento esatto, sapeva cosa dire, come scherzare, ed era premuroso. Tutte qualità che ero insolita a vedere.
«Heath, perché stai facendo tutto questo?» Diedi voce ai miei dubbi, raggiungendolo con quattro ampie falcate perché ero rimasta indietro.
«Questo cosa?»
«Perché mi aiuti. Sei un ragazzo intelligente, e tu sai che non ci rivedremo mai più, come so che hai capito che sì, sono scappata da mio padre, ma che non sono di qui e che presto me ne andrò via. Quindi perché sei ancora con me?»
Ivor mi aveva specificatamente ricordato di mantenere un profilo basso, di non farmi notare da nessuno in particolare e di non rivelare nulla di me, ma per qualche motivo a me ignoto ero convinta che Heath sapesse che non fossi capitata lì per puro caso.
«Appunto per questo, ti sto aiutando.» Affermò e io aggrottai le sopracciglia prima che continuasse: «È vero che ho capito che presto sparirai, però è proprio per questa ragione ho deciso di darti una mano, per non incasinarti. So quanto sia difficile ricominciare, perché mio fratello ha dovuto farlo, e non ho voluto mandare all'aria le tue fatiche. Inoltre hai dei segni sul collo, lividi che non mi piacciono assolutamente.» Fermò i suoi passi, si girò e io, maldestra, mi schiantai contro il suo petto, perdendo l'equilibrio.
Heath mi afferrò prima che potessi cadere, e mi stabilizzò sui miei piedi, quindi mi abbassò il cappuccio della felpa, mi spostò i capelli e mi sfiorò con i pollici i segni violacei sul collo.
Sussultai, colta alla sprovvista.
«Non sono nulla, come vedi sto bene.» Presi la sua mano e mi liberai del suo tocco. Aveva intuito troppe cose e mi stava rendendo nervosa perché non sapevo come muovermi senza coinvolgerlo.
«Certo che stai bene, lo so, ma la violenza non mi piace. Se questi segni li ha fatti tuo padre, puoi dirmelo e io con un paio di chiamate cerco di venirti in soccorso.»
«Non ho bisogno della tua elemosina.» Replicai, forse più tagliente di quanto avrei dovuto essere, ma non mi piaceva il modo in cui mi stava guardando, in un misto tra pietà e pena, perché non ero spaesata e persa. I lividi erano stati solo un imprevisto, non una manifestazione di debolezza o rassegnazione: sicuramente erano segni che non avrebbero dovuto esserci ma che erano soliti ad accadere quando si viveva sul filo di un rasoio, quindi non avrebbe dovuto osservarmi così.
«So anche questo, perciò non sto insistendo, altrimenti fidati che mi sarei già mosso. Non so chi tu sia, e non lo voglio nemmeno sapere se tu non vuoi -per questo non ti ho chiesto il nome-, ma voglio seriamente darti una mano se hai bisogno di qualche aggancio.»
«Non so cosa dire.» Risposi sinceramente.
Non mi era mai capitato che qualcuno capisse la mia situazione e si offrisse per darmi una mano e risolverla, perciò mi ritrovai spiazzata davanti alla proposta di Heath, che insieme al suo sguardo era veramente convincente. Sembrava avesse aiutato altre persone come me, e che sapesse di cosa stesse parlando e dei rischi a cui sarebbe andato incontro se lo avessero scoperto, quindi ero confusa e allo stesso tempo notevolmente colpita.
«Non devi dire nulla, infatti.» Scrollò le spalle.
«È solo strano, sai? Non mi è mai successa una cosa del genere.»
Dopo un primo momento di silenzio riprendemmo a camminare, e nel frattempo mi tirai su il cappello, chiedendomi se Heath mi avesse offerto la sua felpa proprio per nascondermi piuttosto che per il freddo.
«Cosa? Che un bel ragazzo come me ti abbia offerto la sua totale disponibilità?» La buttò sul ridere.
«No, più che altro mi sorprende che un ragazzo intelligente come te non abbia fatto la scelta giusta.» Ossia quella di consegnarmi alla polizia. «So che sai chi sono. Mi hai mentito quando hai detto di non aver trovato i documenti, perché erano vicini alle barrette che ho rubato, perciò sai come mi chiamo.»
Mentre lasciavo che le mie parole prendessero il sopravvento sulla ragione, rivelando così gran parte della verità ad un estraneo, Heath mi ascoltò attentamente. Mi rendevo conto che fosse sbagliato, che stessi facendo un grosso errore ad aprirmi con uno sconosciuto, ma volevo giocare a carte scoperte, voltando di conseguenza anche le sue. Se avesse voluto aiutarmi avrebbe dovuto confessare ogni cosa e quanto avesse saputo.
«Sei Elle Hunt, ma questi documenti sono chiaramente falsi, altrimenti non si sarebbero rovinati così.» Heath li tirò fuori dalla tasca dei pantaloni e io sgranai gli occhi perché non era possibile che me li avesse sottratti senza che me ne fossi resa conto.
Boccheggiai, non sapendo cosa dire, presa tra la sorpresa e la rabbia per aver messo troppo il naso nelle mie faccende personali, e alla fine sospirai affranta.
«Non sospirare, che non ti consegno in mano a nessuno. Io stesso ho dei documenti falsi, li usavo per comprare l'alcool ed entrare nelle discoteche, quindi non mi sconvolgi. Anzi, se vuoi ti do pure un contatto per procurarne uno nuovo.»
«Grazie ma ho già fatto, domani vedo un amico di vecchia data.» Strappai i documenti di mano ad Heath e li riposi nella tasca della felpa che mi aveva prestato e che non avevo intenzione di restituire. Lasciarmela per sempre era il minimo che avesse potuto fare per aver violato la mia privacy.
Meno male che odiava infrangere quella altrui. Mi dissi.
«Per caso è Ivor Blake?»
Heath si fermò davanti alla vetrina di un bar, e mi guardò divertito quando spalancai la bocca, incredula. Diavolo, ma chi avevo incontrato?
«Ma sei sicuro di non essere una spia? No, perché possiamo benissimo farla finita e passare alla parte in cui mi ammanetti.» Allungai i polsi, aspettando che tirasse fuori le manette e adempisse al suo dovere, ma non accadde nulla, perché Heath scoppiò semplicemente a ridere mentre: «Ammanetto le belle ragazze solo a letto, ma non credo sia producente per il tuo fine.» Terminò invitandomi con un cenno ad entrare nel bar. D'altra parte io rifiutai, scuotendo il capo, perché era impossibile che sapesse tante cose su di me senza avermi mai conosciuta prima.
«A che gioco stai giocando, Heath?» Lo guardai in cagnesco.
«Al gioco che adesso entri oppure ti trascino di peso.»

Succederebbe Tutto - H.S.Место, где живут истории. Откройте их для себя