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Haywood

«Sta arrivando.» Avvisai senza degnarla di uno sguardo.
Infilai il cellulare nella tasca dei jeans, aprii la portiera dal lato del guidatore, presi la mia tessera identificativa che lei aveva lasciato sul sedile, e la posai continuando ad ignorarla. Il suo modo di parlare e il suo testardo silenzio mi urtavano il sistema nervoso, quindi non vedevo l'ora di scortarla in centrale per liberarmi di lei. Non mi piaceva il Queens, e questo giretto -così lo aveva definito Duncan Gemini- non mi aveva fatto cambiare idea. Lo odiavo ancora e, forse, anche più di prima. Mi sentivo in trappola.
Mi appoggiai contro la carrozzeria dell'auto e sospirai, frustrato. Mi guardai intorno, impaziente ma anche agitato, eppure di Heath e Lyle non c'era ancora alcuna traccia. Soltanto il buio ed il silenzio, a circondarmi. La strada era vuota, illuminata soltanto da qualche lampione mal funzionante, e il Saturn era completamente deserto; i miei colleghi lo avevano fatto chiudere temporaneamente, e chi non fosse stato arrestato, era tornato di corsa a casa per pararsi il sedere. E lo sapevo perché anch'io, in passato, avevo frequentato quel posto di merda. Probabilmente lo avrei fatto ancora, se solo le cose non fossero cambiate drasticamente.
«Ehi, tu.» Sentii il rumore delle manette attraverso il finestrino abbassato, ma finsi di essere sordo.
«Ehi, tu. Mi ascolti?!» Insistette dimenandosi ancora un po'.
Mi passai la mano tra i capelli, muovendo un ultimo sguardo sul fondo del viale, e mi voltai.
«Cosa vuoi?!» Il tono della mia voce era brusco, però volevo che lo fosse. Pretendevo che capisse quanto mi desse fastidio la sua presenza, la sua insolenza, la sua maleducazione. Esigevo le entrasse in quella testa dura che non me la sarei bevuta, che non avrei mai creduto alla sua totale ed incondizionata innocenza. Li conoscevo, i tipi come lei, e non l'avrei scagionata finché non ne fossi stato certo.
«Fa freddo.» Un brivido scosse il suo corpo.
«Quindi?» Inarcai un sopracciglio.
«Puoi alzare il finestrino?»
«No, ti devo controllare.» Replicai con autorevolezza e mi voltai nuovamente, appoggiando la schiena contro lo sportello.
«Si dà il caso che io non possa scappare.» Strattonò le manette per evidenziare il concetto.
Smettila di farlo. Avrei voluto gridare. Ti fai solo più male e io non ti lascio andare via.
«Non mi interessa.»
«Stronzo.» Borbottò sprofondando nel sedile di pelle.
«Come, prego?!»
Aveva seriamente osato rivolgersi a me, ispettore di Manhattan, con tale arroganza e prepotenza? Soltanto perché avevamo pressoché la stessa età, non significava che avrebbe potuto trattarmi come un suo semplice coetaneo. Insolente. Era una cazzo di insolente.
«Senti, signorina.» La scimmiottai appoggiando le mani dove il finestrino era stato abbassato e mi chinai all'interno dell'abitacolo per cercare il suo sguardo, che intenso sfidò il mio. «Rivolgiti ancora una volta a me in questo modo e prometto che ti renderò la vita un inferno. Il freddo che senti adesso e le manette intorno ai tuoi polsi non saranno nulla, in confronto a quello che proverai.» Scandii lentamente ogni parola con la speranza che la potessero trapassare come schegge, ma anche se deglutì e si toccò i polsi, nervosa, non smise nemmeno un secondo di trafiggermi con gli occhi. Iridi verdi piene di rabbia. Uno sguardo che, probabilmente, era riflesso del mio.
«Mi stai minacciando?» Sibilò tra i denti. «Potrei denunciarti.»
«E a chi crederebbero?!» Ridacchiai. «A me, ispettore di Manhattan, figlio del colonnello del Queens, oppure a te, povera e sudicia ragazza sbucata dal nulla?» Non mi sarei mai permesso di abusare del mio potere, ma per contrastarla non avrei potuto fare altrimenti.
Boccheggiò con gli occhi fumanti di rabbia. Riuscii a vedere il fuoco dentro di essi persino nella penombra. «In quelle condizioni, tutta sporca e incrostata di sangue, con i vestiti che sembrano più stracci, chi ti crederebbe?» Volevo ferirla. Volevo dimostrarle chi comandasse tra i due. «Non puoi nemmeno spacciarla per aggressione o molestia, il mio comportamento, perchè la mia collega è testimone. No?» La derisi, e con quella domanda retorica, sperai di averla sistemata al suo posto. Ragazzina impertinente.
«Sei subdolo.» Ringhiò. «E cattivo. Ho solo freddo, per la miseria.»
«Allora non avresti dovuto vestirti così leggera quando è quasi inverno.» Replicai frustrato.
«Mi hai guardato bene, eh?» Mi provocò e io mi maledii per averglielo fatto notare. Certo, che l'avevo squadrata per bene: la statura alta e slanciata, le gambe -seppur avvolte dai collant leggeri- erano dritte e muscolose, i capelli scossi dal vento, le labbra piene...L'avevo osservata più di quanto volessi far ammettere a me stesso. Ma cosa avrei dovuto fare, altrimenti?
Il sangue che fuoriusciva dalla ferita al ginocchio e dal taglio sulla mano, il respiro pesante, il terrore nel volto e i lividi sul collo...Quelli erano stati proprio impossibili da ignorare, per me. Diavolo, come avrei potuto?
Odiavo la violenza e ancor di più quella sulle donne, e il bastardo che le aveva procurato quei segni violacei avrebbe dovuto marcire in una cella del carcere della contea. E ci sarebbe finito, se solo mi avesse incontrato per strada.
«Ti sarebbe piaciuto, eh?» Spostai lo sguardo verso la strada, dandole le spalle poichè mi infastidiva fissarla. Non aveva l'aria di essere una ragazzina sprovveduta, con quell'atteggiamento spavaldo, e se si era ridotta in quello stato qualcosa aveva combinato per forza. Non ero stupido. Mi servivano solo delle prove. Lei diceva di essere stata salvata da Lyle, ma faceva così buio che nemmeno io sarei riuscito a distinguerla. Ma la parrucca blu...Quella era il marchio di fabbrica della detective Martinez. Avrei dovuto parlare con lei, per testare la veridicità della signorina seduta nel mio fuoristrada. Peccato che non ci fosse ancora nessuna traccia di Lyle.
Finalmente, quando la spina nel fianco riuscì a capire di dover rimanere in rigoroso silenzio, tastai il giubbotto alla ricerca della radio. La sfilai, premetti il bottone che illuminò il led di verde, attivandola, e me la portai alle labbra. «Martinez, sono Atkinson. Dove sei finita? Se mi ricevi, rispondi per favore.»
La mia collega nonchè migliore amica, era brava nel suo lavoro, ma cominciavo seriamente a preoccuparmi. E se la fastidiosissima ragazza che avevo arrestato avesse ragione riguardo a Ray e anche Lyle si trovava in pericolo?
Avevamo deciso di dividerci non appena avessimo varcato la porta del Saturn e, nonostante ciò, non l'avevo persa di vista nemmeno per un misero secondo. Mentre mi stavo controllado le uscite secondarie, lei aveva già scrutato e sorvegliato la gente all'entrata e si era appostata vicino al bancone dove, di tanto in tanto, un ragazzo troppo ubriaco persino per ricordarsi il suo nome le aveva offerto un drink. Quindi l'avevo tenuta sotto controllo per tutta la durata dei suoi incontri: io stavo bene, Lyle era al sicuro e il nostro bersaglio, al centro della pista, era pronto per essere centrato. Così, con la radio trasmittente avevo dato una serie di istruzioni ai miei colleghi, ma era stato proprio allora che era scoppiato un pandemonio. Una delle squadre di mio padre non aveva capito nulla delle mie parole e si era fatta scoprire, e nel disco-pub tutti avevano iniziato ad agitarsi e avevo perso d'occhio Lyle. Ma lei se la sarebbe cavata - mi ero detto entrando in azione- quindi non l'avevo più cercata e avevo cominciato a farmi spazio tra le centinaia di corpi sudati e appiccicosi. Troppe persone erano rimaste ferme e altrettante erano scappate, chi per paura, chi per non farsi prendere. Ancora non sapevano cosa sarebbe accaduto di preciso: in pochi minuti avevo arrestato tre ragazze per spaccio di droga, le avevo scortate nella volante dei miei colleghi incapaci e poi ero corso immediatamente verso il vicolo sul retro, dove ero riuscito ad incastrare altre due giovani donne. Soddisfatto e compiaciuto, avevo ripetuto la procedura precedente, ed ero tornato nel mio fuoristrada per aspettare Lyle che stava finendo di svolgere il suo lavoro.
Era stato proprio in quel lasso di tempo, che l'avevo vista: non era nella lista dei sospettati che mi aveva consegnato Gemini, però il mio istinto mi aveva spinto ad arrestarla comunque. Stava scappando, e non per puro caso.
Adesso non mi aspettava altro che ascoltare le sue dichiarazioni, ma la spina nel fianco mi avrebbe fornito i dettagli soltanto in presenza di Heath. Cosa c'entrava, mio fratello, in tutto ciò?
Essendo in sovrappensiero, sobbalzai quando sentii il vetro del finestrino scorrere sulla mia schiena -pinzandomi la giacca di pelle- e udii il rombo del motore della mia auto.
«Ma che cazzo fai?!» Sbraitai colpendo il finestrino con le nocche. In risposta, ricevetti la sua risata compiaciuta. Incazzato, invece, aprii la portiera. «Allora?» Fatemi tornare a Manhattan.
«Dato che con le buone non lo hai fatto, ho deciso di chiudere personalmente il finestrino e di accendere anche il riscaldamento.» Scrollò le spalle come se non le importasse minimamente il fatto di star provocando una forza dell'ordine e: «Se il tuo sedere ha bisogno del freddo per mantenersi, fai come ti pare. Ma il mio necessita di caldo.» Fece per incrociare le braccia al petto, e invece rimase bloccata dalle manette, che glielo impedirono.
Borbottò qualcosa di incomprensibile e poi: «Tra quanto arriva tuo fratello?!»
Me lo domando anch'io, credimi. La ignorai e l'ultima cosa che sentii fu un «Coglione.» rivolto ad Heath.
Feci un mezzo sorriso perchè, tra tutte le cazzate che aveva sparato stanotte, quella era la più vera.

Succederebbe Tutto - H.S.Onde histórias criam vida. Descubra agora