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Haywood

Erano le sette quando varcai la soglia della mia stanza d'albergo. Posai le chiavi sulla mensola accanto all'ingresso e mi tolsi gli anfibi, sospirando.

Avevo accompagnato Edith alla pasticceria di mia mamma e il viaggio in macchina era stato lungo ed estenuante: lei non mi aveva rivolto alcuna parola e io avevo preferito non intavolare una conversazione per non dover litigare di nuovo.
Avrei dovuto esserle grato, perché finalmente aveva deciso di rispettare una delle prime richieste che le avevo avanzato, ossia di restare in silenzio ogni qualvolta avessimo condiviso uno spazio, eppure da quella mattina -dopo aver dialogato civilmente con Edith- non mi sarebbe dispiaciuto conoscere il suo punto di vista. E ascoltare la sua voce non mi aveva infastidito, dopotutto.
Però l'avevo istigata durante il tragitto in auto verso l'hotel ed Edith, giustamente, aveva deciso di evitarmi con risolutezza. Si era sfogata con me, le avevo dato l'impressione di essere una spalla su cui piangere, e poi mi ero preso gioco di lei, avevo superato i suoi limiti e avevo ricevuto un bel palo in faccia.

Tanto ti piace stare qui, no?! La tua famiglia ti ama, mi aveva sputato contro con cattiveria. Ma l'avevo meritato.

Lanciai sul letto la giacca di pelle, che atterrò sopra i vestiti di Edith, e sbottonai la camicia che stavo indossando. La feci scivolare per le braccia e la gettai vicino ai pantaloni della tuta che le avevo prestato la sera prima.

Questa ragazza è l'emblema del disordine, constatai mentre mi spostavo verso la scrivania dove erano sparpagliati i suoi trucchi.

Dovetti far appello a tutto il mio autocontrollo per non sistemare ogni cosa a modo mio. Se avessi spostato anche solo un oggetto sarei andato incontro all'ennesima discussione con lei, che si sarebbe arrabbiata non perché avessi voluto mettere in ordine bensì perché ero stato io ad averlo fatto.

Non avendo più forze per sostenere un'altra lite, decisi di ignorare il caos e di ingoiare il boccone amaro. D'altronde il sentimento era reciproco: uno non sopportava l'altra. Il perché mi fossi ostinato nel trascinarla in una camera d'albergo con me ancora non lo sapevo, però le insinuazioni che Heath aveva rivolto sul mio modo di operare e di lavorare mi avevano fatto imbestialire. Probabilmente avevo voluto la presenza di Edith accanto alla mia per dimostrare qualcosa a mio fratello e a mio padre. Cosa? Stavo cercando di capirlo.

Slacciai la cintura di pelle, la posai arrotolata accanto al fondotinta, e tolsi anche i pantaloni e le calze prima di prendere l'occorrente per la doccia. Andai in bagno, appoggiai il bagnoschiuma nell'apposito scompartimento, regolai il getto dell'acqua e soltanto quando fu sufficientemente calda entrai nella cabina. Chiusi le ante di vetro, che si appannarono all'istante, sollevai il capo calando le palpebre e permisi all'acqua di scivolare lungo il mio corpo. I muscoli si rilassarono e fu allora che realizzai quanta tensione avessi accumulato: gli ultimi due giorni mi avevano prosciugato.

Non avrei mai immaginato di poter arrestare la persona sbagliata, perché non era capitato neanche una volta in tutta la mia carriera, eppure era accaduto lo stesso e una semplice retata si era trasformata in un caos assurdo. Probabilmente avevo deciso di prendermi cura di Edith perché mi ero sentito in colpa, e non soltanto perché avessi avuto bisogno della sua testimonianza contro Ray Smith. Che poi mi fossi comportato da stronzo nel mentre, era tutto un altro discorso: Edith era impertinente, testarda, saccente, e avrebbe dovuto capire chi avesse comandato anche se -lo ammettevo- poche ore prima mi aveva neutralizzato. Avevo giocato con lei, sfruttando quel magnetismo che si era creato nell'abitacolo, l'avevo accarezzata e sedotta, avevo fatto in modo che i suoi occhi si fossero persi nei miei, le avevo sfiorato le labbra...E poi mi ero scottato. Avevo superato il limite della decenza e lei con me. E dopo averla sentita gridare quanto la mia famiglia non mi avesse amato, mi ero maledetto per averla provocata con la storia del fidarsi e della chiave elettronica. Soprattutto perché da allora non avevo smesso di pensarci. Persino alla centrale di polizia, quando avrei dovuto scortarla personalmente da Elizabeth Brown e dalle sue amiche, avevo preferito delegare Lyle per riprendere fiato e per recuperare aria: il ché aveva fatto di me un perfetto fallito, ancora. Così, invece di indossare la mia solita maschera di indifferenza e di entrare nella stanza degli interrogatori, avevo dichiarato alla mia migliore amica di dover sistemare le ultime pratiche per l'arresto di Ray Smith, ed ero sgattaiolato nel mio ufficio provvisorio dove, una volta dentro, mi ero limitato a girare in circolo in preda al nervoso. Avrei voluto spaccare tutto e urlare -avrei voluto soltanto ritornare nella mia casa a Manhattan- ma finii per soffocare le grida tra i denti e per aspettare con ansia l'uscita di Edith. Mezz'ora più tardi, dopo aver ottenuto le tanto desiderate cinque denunce per molestie, lei aveva fatto irruzione nell'ufficio in cui mi ero rinchiuso e, cogliendomi di sorpresa, mi aveva detto: Quindi come devo fare per denunciare quel bastardo?.
E così anche lei mi aveva lasciato la testimonianza che tanto le avevo chiesto, a differenza di quanto mi avesse promesso. In teoria avevo vinto la partita che stavo giocando con lei, ma mi ero sentito come se avessi perso perché, quando mi ero offerto di accompagnarla in hotel, Edith mi aveva risposto: Sono una donna indipendente ed emancipata. Posso raggiungere l'albergo anche senza il tuo ego infinito. Che poi, adesso te ne vai, vero?
Le sue parole avevano sortito uno strano effetto su di me, tanto da decidere di non insistere e di ritornare nel mio ufficio, quella volta con la rabbia che stava ribollendo nelle vene. Avevo finito di lavorare e, dopo aver salutato e ringraziato la squadra di incapaci che aveva arrestato Hailee ed Ivor, ero tornato in hotel, dove Edith mi stava aspettando affinché avessi potuto portarla da mia mamma.
Adesso non sei più emancipata? L'avevo provocata e lei, con uno spintone, mi aveva superato ed era uscita dalla suite con le chiavi della mia auto. L'avevo seguita e, in seguito ad un altro scontro verbale, era salita dal lato del passeggero.
L'acqua diventò ghiacciata e io fui riscosso dai miei pensieri. Avrei voluto dimenticare tutto e presto lo avrei fatto perché, non appena avessi finito la doccia, mi sarei cambiato, avrei radunato le poche cose che mi ero portato dietro dentro un borsone di cuoio e sarei tornato a Manhattan, alle mie semplici abitudini quali risolvere casi e leggere nel tempo libero.
Non avevo molti amici, dato che li avevo persi durante il periodo di recupero e di formazione come agente dell'ordine, ma non mi dispiaceva vivere in solitudine. Non avevo problemi come mio padre, Heath, Hailee, Edith...Ero padrone della mi vita, e non avevo vincoli se non gli obiettivi che mi imponevo autonomamente.
Presi lo shampoo, lo versai sulla testa massaggiando la cute, ed imprecai quando le dita si incastrarono tra i miei ricci. I miei capelli erano lunghi, a differenza di quanto ci si sarebbe aspettati da un uomo in divisa, ma essere diverso non era male: mi piacevo e finché fosse stato così non avrei cambiato nulla di me. 
Insaponai il corpo, lo risciacquai, spensi il getto dell'acqua e allungai una mano fuori dalla doccia per afferrare l'accappatoio appeso alla parete, ma quando feci per prenderlo tastai soltanto la superficie liscia delle piastrelle. Sollevai gli occhi al soffitto e, sbuffando, uscii dal box avvicinandomi alla porta del bagno. Mi sporsi, e non appena vidi l'indumento che stavo cercando arrotolato e sporco di tinta castano sul materasso, maledii Edith. Non mi sarei lamentato di usare un semplice asciugamano, se solo non fosse stato di dimensioni ridotte per riuscire ad avvolgere completamente la mia vita, perciò mi armai di pazienza e cominciai a tamponare il corpo con il tessuto di spugna che mi restava. Dopo essermi vestito -indossai sopra l'intimo un paio di pantaloni della tuta e una t-shirt- uscii dal bagno e presi il telefonino in mano. Strisciai il dito sullo schermo, sbloccandolo, e trovai due chiamate perse e un messaggio dalla mia collega. Lo aprii e lo lessi: Eich, stasera devo tornare a Manhattan. Ieri ti ho fatto un favore venendo qui, ma adesso mi stanno reclamando. Tu cos'hai intenzione di fare?
Anche Lyle era stata convocata nell'ufficio del commissario Gemini prima di partire, per essere affidata ad un caso altrettanto importante, però non avevamo avuto modo di discuterne.
Parto domani mattina. Devo ancora assicurarmi che tutto sia in ordine. Digitai velocemente la risposta evitando di menzionare Edith e la inviai.
Lyle era la mia migliore amica, di lei mi fidavo, ma aveva la pessima abitudine di impicciarsi troppo nella mia vita. Non lo faceva apposta, era parte integrante del suo essere, però spesso diventava insopportabile, soprattutto perché il novanta per cento delle volte finiva per aver ragione. E io odiavo essere nel torto. Non ero preparato ad affrontare il suo terzo grado -ero già abbastanza stressato di mio- quindi spensi il telefono e lo gettai sul materasso. 
Mi avvicinai al borsone, infilai le mani sul fondo ed estrassi la cartella rossa del caso Reyes che non avevo ancora avuto modo di studiare approfonditamente.
Mi sedetti sul letto, incrociando i piedi e appoggiando la schiena contro la testiera e aprii il fascicolo sulle mie gambe. Una delle fotografie del cadavere di Jane Turner, moglie di Aaron, scivolò per terra, finendo sotto il materasso. 
Borbottai un'imprecazione, ma non la raccolsi per mancanza di voglia e presi in mano il portfolio di Aaron Reyes: classe millenovecentosessantacinque, aveva studiato finanza al Manhattanville College laureandosi con il massimo dei voti nel millenovecentottantanove. Nel millenovecentonovantatre era convolato a nozze con Jane Turner e nel duemiladiciotto era stato arrestato per traffici illegali quali droga, scambio di minori, frode e prostituzione, anche se adesso la maggior parte delle prove raccolte per testimoniare ciò erano state fatte sparire. Il ché rappresentava un enorme problema, dato che era stato indetto un nuovo processo per discutere sulla scarcerazione di Reyes. Purtroppo non c'erano indizi sufficienti per condannarlo una seconda volta però, da parte mia, avrei messo a disposizione tutto il mio impegno per scovare qualcosa di importante e, di conseguenza, per ricostruire l'intero caso.
«Ci deve essere per forza un legame tra queste prove.»
Deciso a trovare un collegamento, recuperai il blocco degli appunti e il portatile che avevo spostato sul comodino. Lasciai il primo sul materasso e appoggiai il laptop sulle mie gambe. Sollevai lo schermo e schiacciai il pulsante di accensione.
Mentre aspettavo che il sistema si avviasse sfogliai il contenuto della cartellina rossa, sfilai il primo foglio e lo lessi: risaliva all'interrogatorio avvenuto in seguito all'arresto e si incentrava sulle scuse labili e innumerevoli di Reyes volte a provare la sua innocenza, per cui non c'era nulla di interessante se non un solo nome: Zed Ontes. Socio in affari dal millenovecentonovantaquattro, le tracce della sua esistenza erano scomparse il giorno stesso dell'arresto del suo collaboratore e, anche se la polizia aveva tentato più volte di stanarlo, non si era più fatto trovare.
Da aggiungere alle persone da cercare. Mi appuntai mentalmente.
Passai al documento successivo riguardante Jane Turner, la donna ritrovata morta diversi giorni prima nella sua casa di Manhattan: nata il ventisei marzo millenovecentosessantanove, figlia unica, proveniente da una famiglia di girovaghi, aveva studiato infermieristica presso l'università di Brockport. Nel millenovecentonovantatre, trasferitasi a Manhattan, si era spostata con Aaron Reyes e all'età di venticinque anni, dopo aver conseguito la laurea, aveva trovato lavoro al New York Presbyterian Hospital.
Con la fedina penale pulita, cittadina modello e devota, sempre disposta ad aiutare il prossimo, nel duemilasedici era caduta in una profonda depressione dalla quale ne sarebbe uscita soltanto nel duemiladiciotto quando, mesi dopo l'arresto del marito, Dez Stone l'aveva portata in una clinica di riabilitazione.
Interruppi la lettura, presi l'evidenziatore verde e sottolineai il nome in questione.
Dez Stone: l'avevo già sentito. All'improvviso capii. In fretta accantonai il foglio che stavo studiando, spostai il resto dei documenti e ripresi in mano la dichiarazione del primo processo di Aaron Reyes. Lo lessi velocemente e mi fermai soltanto quando scovai ciò che stavo cercando: il nome di Dez Stone era scritto in grassetto e, tra parentesi, era stato riportato il legame che intercorreva tra lui e l'imputato. Amico di vecchia data. Poprietario di un'impresa di marketing. Risultato innocente dopo un'accurata indagine. Nessun precedente alle spalle. Sostenitore della legge. Così c'era scritto però, sebbene fosse stato tutto in regola, alcuni dubbi si fecero largo nella mia mente: possibile che il migliore amico fosse stato all'oscuro dell'attività illegale di Aaron? E perché rifiutarsi di testimoniare in suo favore? 
C'erano un sacco di buchi, ma da dove cominciare? «L'infiltrato ha agito proprio bene.»
Sospirai e tornai a studiare il fascicolo di Jane Reyes: nell'aprile duemiladiciannove una perizia psichiatrica aveva dichiarato la sua infermità mentale e nell'agosto dello stesso anno, quando le era stata comunicata l'ipotetica scarcerazione del marito per mancanza di prove, non solo si era rifiutata di prendere le parti di Aaron, ma aveva richiesto il divorzio immediato. Quando le avevano chiesto il motivo, questa era stata la risposta: «Devo proteggere Blue.» Poi si era chiusa nel silenzio. Poche settimane dopo sarebbe stata trovata morta.

Succederebbe Tutto - H.S.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora