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Edith

Per avere cose mai avute occorre fare cose mai fatte.

Avevo dimenticato dove l'avessi letto o chi l'avesse scritto, però ricordavo di aver riflettuto a lungo su quella citazione. Mi era rimasta dentro, si era impressa a fuoco nella mia mente e più volte, durante il corso della vita, avevo continuato a rimuginarci su. 
Molti sostenevano che per ottenere successo, per compiere imprese significative, per vivere a pieno la propria esistenza, occorressero audacia e volontà. Tanti, infatti, definivano quel matrimonio di qualità come intraprendenza. E allora avevo pensato parecchio da cosa fosse dipeso l'essere dotati di quella forza impavida e creatrice, ed ero arrivata alla conclusione che non ci fosse stato un perchè o un come. Audaci lo si era e basta. Per questo, avevo iniziato a dividere il mondo in due grandi categorie di persone: il gruppo A di coloro che con lo spirito di intraprenza ci erano nati e il gruppo B, di cui faceva parte chi ne era sprovvisto. Io appartenevo a quest'ultimo. Con quel coraggio, con quella volontà e con quel desiderio di affermazione io non ci ero cresciuta. E un po' avevo sempre invidiato chi lo aveva posseduto e che, quindi, non aveva dovuto trovare un modo per imporsi nel mondo perchè ne faceva già parte, quasi fosse stato un elemento della natura.
La famiglia era stata tutto per me: il mio rifugio preferito, la luce nel buio, il mio sostegno. L'avevo amata tantissimo, con tutta me stessa e anche di più. Mio padre e mia madre non erano mai stati soltanto i miei genitori, bensì motivo di orgoglio, oggetto di ammirazione e modelli da seguire, e io avevo desiderato ogni giorno di poter diventare come loro: avrei voluto acquisire la capacità di adattarsi in qualsiasi situazione del primo, e la determinazione e la passione della seconda. E avevo lavorato sodo, per assomigliarci anche solo per qualche tratto.
A quindici anni avevo cominciato a sognare di poter volare con le mie sole ali, proprio come avevano fatto mamma e papà alla mia età, ma ben presto avevo capito di essere ancora troppo piccola per quel tipo di esperienza. I tempi erano cambiati e, per quanto avessi voluto diventare indipendente, sapevo che non avrei lasciato la mia casa, il mio porto sicuro, per molti anni a venire. Però avevo continuato a viaggiare con la mente, ad assaporare una libertà immaginaria, ignara di chi avrei voluto essere realmente una volta raggiunta la matura età.
A sedici anni, invece, dopo un anno scolastico a dir poco infernale, avevo iniziato a convincermi che non avessi vissuto abbastanza, e che avrei voluto godermi la vita secondo le mie regole, lontana dai vincoli dei miei genitori ma nei limiti della loro educazione e, raggiunti i diciassette, quello che fino ad allora era stato soltanto un pensiero si era concretizzato. 
Una mattina di inizio agosto mio padre mi aveva scoperta ad origliare una riunione nel suo ufficio, e la stessa notte si era presentato in camera mia con un borsone di cuoio contenente dei vestiti puliti, una carta con qualche migliaia di dollari e una bella minaccia: "Sparisci oppure faccio del male a tua madre". Non ero sicura che papà avrebbe messo in atto il suo intento, però mi ero spaventata tanto da acconsentire e, il giorno seguente, avevo mentito a mia madre ed ero fuggita, quindi mi ero ritrovata improvvisamente per strada e carica di responsabilità. Durante la riunione di mio papà avevo scoperto un grande segreto e, se una parte di me aveva voluto denunciarlo alla polizia, l'altra aveva avuto paura di mettere a rischio la sicurezza di mia mamma, perciò avevo ingoiato il rospo e avevo iniziato a camminare. Per i primi tempi avevo provato a continuare la mia vita normalmente, per quanto possibile: mi ero trasferita in un'altra città e avevo concluso lì le superiori, poi mi ero iscritta all'università, ma dopo un anno avevo mollato tutto. I soldi sulla carta stavano calando, e le uscite stavano superando le entrate -mantenersi aveva un prezzo enorme-, e solo allora avevo compreso di non poter continuare a vivere come una ragazza normale. Perché non lo sarei stata mai più.
Non era stato un sogno, quello che avevo vissuto, e se avessi potuto tornare indietro avrei detto alla me quindicenne di non aver fretta di crescere, perché il dopo sarebbe stato un fottuto casino. Quando si era adolescenti non si era ancora preparati ad affrontare la vita vera, quella fatta di fatiche e di grandi responsabilità, e io non ero stata da meno: non ero stata in grado di affrontarla perché in diciassette anni mi ero limitata soltanto a studiare. Studiare per migliorarmi, per rendere fieri i miei genitori, per sfidare i miei compagni di classe e me stessa. Finire le superiori e frequentare l'università erano sempre state le mie più grandi aspirazioni, ma con il tempo mi ero resa conto che i miei bisogni fossero cambiati. E allora avevo rimescolato le carte in tavola.
La verità più cruda, però, era stato scoprire di non avere la benché minima idea di cosa avesse significato essere adulti, e la serie di errori che avevo commesso ne erano stati la dimostrazione e avevano fatto della mia vita un moto parabolico. 
Ero stata sparata come un proiettile fuori dalla mia dimensione, e fare i conti con l'ignoto aveva segnato un'esistenza in discesa piuttosto che in salita. Tutto si era trasformato in un enorme punto interrogativo.
Con il tempo avevo imparato a gestirlo e, tra una vittoria e una sconfitta, mi ero trasformata in una donna. E, ad oggi, ero fiera di chi fossi diventata. 
Per questo, mi arrabbiai con me stessa quando il poliziotto mi sigillò le manette dietro la schiena. Avevo vissuto per tre lunghi anni nell'ombra e, anche se nell'ultima settimana avevo combinato dei pasticci, ero riuscita a cavarmela: ero scappata da Chicago senza farmi riconoscere, avevo scampato l'interrogatorio di Heath ed avevo ottenuto la mia nuova identità. Se non fosse stato per Ray e per la mia terribile linguaccia, a quest'ora non sarei stata debole e tanto imprudente. E, soprattutto, non avrei rischiato la galera per...Per cosa la stavo rischiando esattamente?
«Mi scusi, credo ci sia un errore.» Dissi a denti stretti, cercando di trattenere il dolore quando colui che mi aveva incastrata sfiorò involontariamente le mie braccia e: «Mi sta facendo male.» Aggiunsi.
«Dicono tutti così, ma so che mente, quindi si volti e cammini davanti a me.» 
Misi da parte l'orgoglio ed eseguii il suo ordine, che seppe tanto di minaccia. Non appena mi girai, inoltre, lo sentii armeggiare dietro di me, perciò realizzai che avesse tirato fuori una pistola nell'esatto istante in cui la caricò, puntandola alla mia nuca. Non volevo che l'agente mi scortasse in centrale, eppure gli permisi di spostarmi per raggiungere la sua auto. Avrei voluto solo piangere e urlare, oppure essere una persona senza segreti, invece mi limitai a rimanere calma mentre ci stavamo allontanando dal Saturn. Fui tentata di voltarmi per gridare a squarciagola il nome di Heath, ma preferii rimanere in silenzio per non metterlo nei guai; infondo mi aveva aiutato e non era solo colpa sua se le mie aspettative sul suo conto fossero state alte, soprattutto perchè a crearle ero stata io. 
«Mi deve credere, agente.» Lo implorai continuando a zoppicare. «Non so il perchè lei mi abbia messo le manette, ma ci deve essere un errore.» Provai a difendermi quando raggiungemmo la sua volante. 
«Sono piuttosto certo che lei abbia a che fare con le spacciatrici che abbiamo preso stasera.» Commentò, fermandosi dietro di me.
Rimasi in silenzio per diversi minuti, soppesando le sue parole, e alla fine le collegai alle ragazze che avevo visto all'interno del salotto vicino al Saturn poco prima. I miei pensieri corsero immediatamente ad Ivor e a Montgomery. Avevano scoperto anche la loro attività illegale?
«Non sono una spacciatrice, lo giuro. Può controllare e verificare che non le stia mentendo. Non ho mai abusato di stupefacenti in vita mia, mi creda. Ero uscita solo dal Saturn per prendere una boccata d'aria, ho camminato un po' e al ritorno un uomo, Ray. » Non mi importava se l'avessi tradito: «Mi ha puntato prima un coltello alla gola, e poi ha tentato di abusare del mio corpo. Di me. Mi deve credere.»
Per essere convincente avrei dovuto voltarmi ed incontrare lo sguardo dell'agente, ma per qualche ragione a me sconosciuta non lo feci, preferendo guardare i vetri della Range Rover dinanzi a me. Osservai il mio riflesso, che era veramente pietoso -avevo la faccia graffiata, i lividi sul collo, la camicia aperta-, e rabbrividii quando il poliziotto spostò lateralmente i miei capelli per accertarsi della mia storia. Le sue dita erano ruvide mentre percorrevano la mia pelle, sfiorando i punti violacei, ma erano altrettanto delicate e ciò mi portò a rilassare le spalle, permettendogli di verificare la mia versione dei fatti che, infondo, un po' di verità aveva. 
«Mi parli meglio di questi segni.» 
L'agente arrestò i suoi movimenti, improvvisamente, come se il suo tocco contro la mia pelle lo avesse appena scottato, ma ciò non bastò a fargli perdere la sua determinazione.
«Non ricordo il cognome, ma si chiama Ray. Mi ha messo le mani al collo, ha tentato di strangolarmi...» Chiusi gli occhi, sforzandomi di rivivere passo dopo passo il momento in cui per poco non avevo perso la vita, e cercai di controllarmi per non piangere. «Ci era quasi riuscito...Mancava così poco...» Mi resi conto di stare tremando come una foglia solo quando riaprii gli occhi e sentii le manette scontrarsi tra loro. Provai a respirare sommessamente, ma fu tutto inutile perchè il mio cuore stava minacciando di esplodermi nel petto. Non avrei mai voluto trovarmi in quella situazione. Rivolevo indietro la mia vecchia vita. Ero così stanca di dover fingere di essere un'altra persona, di avere a che fare con gente come Ray, di essere la figlia di un uomo spregevole. 
Mi stavano facendo male le gambe, mi stava girando la testa e avevo voglia di rigettare le due brioches che avevo mangiato a colazione con Heath. Mi trattenni e proseguii: «Così poco...Ho quasi perso i sensi, glielo giuro.»
La mia voce si incrinò e con essa il mio corpo. Mi piegai in avanti e rigettai ciò che avevo nello stomaco, che si riversò sulla portiera dell'auto. Calai istintivamente le palpebre, vergognandomi per l'accaduto, e biascicai delle scuse all'agente che sussultò quando vide la sua macchina imbrattata della mia bile e chissà cos'altro. Fui subito inondata dai sensi di colpa, perché non era chiaramente una volante della polizia, e al tempo stesso mi sentii tanto piccola da voler sprofondare nel terreno. Continuavano a tremarmi le gambe, e con esse anche le mani che il poliziotto afferrò prima che potessi crollare prima contro lo sportello dell'automobile, e poi sull'asfalto.
«Spero vivamente che lei non mi stia mentendo.» Udii un rumore e capii che avesse messo la pistola a posto mentre stringeva ancora nella sua mano libera le mie e: «Adesso ci sediamo per terra, perchè non voglio che lei rimetta in macchina, e si calmi. Dopo che si sarà ripresa, ne riparleremo. Okay?»
Annuii impercettibilmente. 
«Okay?» Insistette.
«Okay.»
Incrociai i piedi e piegai le ginocchia per sedermi sull'asfalto, lontana dal mio vomito, e presto anche il poliziotto imitò i miei movimenti, sistemandosi dietro di me. Non comprendevo esattamente il perché non avesse ancora cercato un contatto visivo con me, preferendo restare alle mie spalle, o il motivo che lo avesse spinto a seguirmi sul terreno piuttosto che caricarmi di peso in auto, ma l'idea che non avesse fatto tutto ciò mi confortò particolarmente. Anche se la confusione restava. 
«Mi scusi.» Chinai il capo e osservai le mie ginocchia sbucciate e le gambe insanguinate. Non avevo dei tagli molto profondi, per fortuna. Forse la ferita più grave era quella della mia mano che, per qualche insolita ragione, continuava ad essere stretta dall'uomo dietro di me.
«Ne riparliamo dopo.» Per la prima volta mi concentrai sulla sua voce, che giunse più vellutata alle mie orecchie, e mi domandai se l'agente non fosse stato in realtà un ragazzo. Aveva un tono autoritario e duro, ma alcune sfumature suonavano morbide e giovani. Immediatamente venne la voglia di voltarmi. Lo feci e rimasi delusa quando scorsi una massa informe di capelli ricci guardare verso il basso, sul palmo della mia mano. 
«Perchè continua a guardare la mia mano?»
Se prima ero agitata per essere stata arrestata e spaventata per quello che mi sarebbe accaduto, adesso paradossalmente mi sentivo a mio agio. Certamente non mi rassicurava sapermi con un paio di manette e con un poliziotto dietro la schiena, ma il mio istinto consigliò di controllarmi e di non combinare guai perchè, forse, avrei potuto uscirne illesa. Ero fermamente convinta che il mio discorso lo avesse colpito, e il fatto che mi stesse spostando le manette più in alto per avere la visione completa dei miei polsi ne fu la dimostrazione.
«C'è un taglio molto profondo.» Commentò. «Dovrebbe disinfettarlo e forse dargli dei punti. Come se l'è procurato?» Indagò. Infondo era il suo lavoro.
«Ne riparliamo dopo.» Non ero ancora pronta a raccontare nuovamente l'accaduto.
Il poliziotto sciolse la presa, probabilmente sentendosi risentito, e io mi sentii ancora una volta fragile.
«Non importa.» Riafferrai, per quanto fosse possibile, la sua mano. «Davvero.» Sussurrai quando si allontanò definitivamente dal mio corpo. 
«Penso che si sia ripresa abbastanza, signorina.» Tagliò corto.
L'agente si alzò, sboccò le portiere del fuoristrada e aspettò che mi mettessi in piedi.
«Allora?» Aprì lo sportello del passeggero e mi strattonò. Soffocai un grido di dolore e mi maledii per insolenza. Perché avevo fatto la dura con una forza dell'ordine? Avrebbe potuto distruggermi con un battito di ciglia, dannazione.
«Va bene.» Mi arresi, sospirando. «Se le raccontassi tutto ancora una volta, lei mi lascerà chiamare il mio amico? Ero con lui.» 
Avevo un piede dentro l'automobile quando misi l'orgoglio da parte per tentare di salvarmi la pelle.
«Potrà chiamarlo solo quando avrà finito di raccontarmi tutto.» Sentenziò.
La sua risposta mi infastidì, perchè avrei voluto Heath come garanzia al mio fianco, dato che ero certa mi avrebbe difeso e che avrebbe convinto l'agente a credermi, ma non ero nella posizione più adatta per impartire ordini. Mi ero già spinta oltre il limite, avendo evitato alcune sue domande e sottolineato la mia totale innocenza, e come risultato avevo aumentato solamente i sospetti sul mio conto. Era meglio non peggiorare la situazione.
«Potrebbe smettere, però, di strattonare le manette? Sento veramente male ai polsi.»  
Avrei dovuto medicare le mie ferite, dove il sangue probabilmente infetto aveva iniziato ad essiccarsi, ma non avrei potuto farlo perciò: «Per favore.» 
Lamentarsi non faceva parte di me, ma i tagli mi stavano bruciando e ogni volta che avevo provato a muovermi cercando di limitare il contatto con la pelle, il poliziotto mi aveva fermato per rimettermi a posto. Avrei voluto gridare e dimenarmi, invece rimasi in silenzio. 
Lo sentii tirare fuori delle chiavi e aggrottai le sopracciglia. Perché non mi stava scortando ancora in centrale? Mi stava per scagionare?
«Giuro che se si muove invece di salire in macchina, le manette ai polsi non saranno più l'unica cosa che sentirà.» 
Rabbrividii, ma annui comunque con risolutezza, interiormente emozionata all'idea che mi avrebbe liberato da quello strumento infernale. Il cuore mi scalpitò incessantemente nella gabbia toracica mentre l'agente riprendeva i miei polsi tra le sue dita per sbloccare le manette, e per un attimo provai un senso di infinita gratitudine nei suoi confronti poiché aveva deciso di infrangere il protocollo, ma quando aprì la portiera dopo avermi liberato solo il braccio sinistro avvertii uno strano presentimento. 
«Cosa sta facendo?» 
L'agente prese la manetta che stava penzolando accanto alla sua gemella e la assicurò velocemente alla maniglia interna dello sportello del passeggero, imprigionandomi nella sua auto. Non rispose alla mia domanda, limitandosi semplicemente al silenzio stampa, e mi spinse all'interno del veicolo, costringendomi a sedere. Non che avessi avuto altra scelta, ovviamente. 
«Perchè?» Mi dimenai sul sedile, armeggiando con le manette con la mano libera, ivano. 
«Non aveva male, signorina?» Sottolineò e, capendo di essere stata appena messa alla prova, mi arresi sprofondando contro la pelle del sedile. 
«Non ho poi così tanto torto a crederla colpevole.» 
Aprii bocca per replicare, ma non mi fu concessa nemmeno quella possibilità perché il poliziotto aveva già chiuso la portiera e stava facendo il giro dell'auto. La gratitudine lasciò quindi spazio alla rabbia, perciò provai a liberarmi nei pochi secondi che mi divisero dal suo ritorno, e capii che non ci sarei mai riuscita quando prese posto accanto a me. Sbuffai e in silenzio mi massaggiai il polso libero e ricoperto di segni violacei, quindi spostai lo sguardo sulla ferita sul palmo della mano, ed imprecai mentalmente per le disastrose condizioni del mio aspetto quando incontrai il mio riflesso nello specchietto. Fui sull'orlo delle lacrime. Avevo passato un'intera giornata a reinventarmi, spendendo tempo e fatica, e avevo investito il denaro che avevo guadagnato con il sudore per poter apparire una normale ventenne e per mettere in piedi una nuova vita, e adesso ogni cosa si era rovinata.
Di solito non mi sarebbe interessato di come fosse stata la piega dei miei capelli, o se il mio outfit avesse avuto qualche piega, ma oggi il mio aspetto aveva acquisito un valore importante: aveva rappresentato la mia speranza, la possibilità di credere in un futuro migliore. Il giorno seguente avrei avuto un colloquio e avrei potuto sfruttare quel lavoro per mettere da parte dei soldi per quando fossi tornata da mia madre, ma ciò non sarebbe mai potuto accadere perchè avevo rovinato tutto. Chi avrebbe mai assunto una ragazza con quell'aspetto trasandato?
«Non ho poi così tanto torto a crederla colpevole.» 
L'agente richiamò la mia attenzione e ci riuscì. Rimasi qualche attimo in silenzio, presi un profondo respiro, e strinsi le dita che giacevano sulle ginocchia in un pugno. Mi voltai e lo feci lentamente, tendendo la mascella, soffocando il nodo alla gola per evitare che le lacrime abbandonassero i miei occhi. 
«Se sono così colpevole, perché non sono in una cella in centrale. Eh?! Se lei è tanto sicuro di avermi messo in trappola, cosa sta aspettando prima di consegnarmi definitivamente?!»
Anche quando mi lasciai prendere dall'ira, affannata, stremata, lui rimase impassibile accanto a me e preferì guardare il parabrezza davanti a noi piuttosto che degnarmi di uno sguardo. Io, invece, lo fissai eccome. Prima o poi gli avrebbe dato fastidio e si sarebbe voltato, ne ero certa.
Era buio nell'abitacolo, quindi non riuscii a scorgere altro se non il suo profilo, che era fastidiosamente perfetto. Rimasi in silenzio per pochi minuti, osservando la fronte perfettamente rilassata, le ciglia lunghe e folte, e poi la linea netta del naso che si incurvava leggermente all'insù, le sue labbra piene e dischiuse e il mento ricoperto di barba incolta: era molto giovane.
Un fremito attraverso il mio corpo e io provai a fermare il formicolio alle mani, che mi stava facendo venire voglia di toccarlo. Ma io ero arrabbiata con lui e: «Oltretutto, è veramente un poliziotto?! Qui dentro non c'è nulla che lo provi, e le manette e la pistola non significano niente. E se fosse un amico di Ray?!» Aggiunsi.
Spostai l'attenzione sui sedili posteriori, sui quali c'era solamente uno zaino nero, e lo riportai sul mio interlocutore che, adesso, stava armeggiando con le tasche interne della sua giacca di pelle nera. Aggrottai le sopracciglia, cercando di capire dove avesse voluto arrivare, e quando capii che non avrei nuovamente ricevuto una risposta, mi accasciai contro lo schienale di pelle, sollevando il capo contro la testiera e chiudendo gli occhi. Provai a rilassarmi per nascondere l'agitazione reale, ma non ci riuscii perché avrei voluto soltanto tirare un pugno a quel poliziotto esageratamente sicuro di sé. Mi ero promessa che non lo avrei aggredito, poiché avrei peggiorato la mia sorte, e avevo preso persino in considerazione l'idea di rivelargli ogni cosa per salvarmi, ma ormai non ero più certa di volerla rispettare. Lui non se lo meritava.
«Sto solo verificando le mie supposizioni. Questo è il mio lavoro, che lei voglia collaborare o meno.» La sua voce giunse alle mie orecchie, ma non mi voltai e sobbalzai quando lui gettò qualcosa sulle mie gambe e: «Ho bisogno di sapere ogni singolo dettaglio prima di portarla in centrale. Mi piace svolgere al meglio ciò che faccio.» Tagliò corto lanciandomi un altro oggetto.
Spostai l'attenzione verso il basso e presi l'oggetto di pelle sulle mie cosce. Lo voltai e scoprii fosse un distintivo della polizia di Manhattan. Leggendo il nome della mia città d'origine il cuore prese a battermi forte, quasi fosse stato sul punto di impazzire. 
Quindi mi chiesi da quanto tempo lui avesse quell'incarico, se avesse potuto conoscere mia madre che non aveva proprio un cognome sconosciuto agli agenti di polizia, e mi domandai se -in cambio della mia versione dei fatti- lui sarebbe stato disposto ad aiutarmi a sapere qualcosa in più sulla mia famiglia. In tre anni sarebbero potute accadere molte cose. Valutando questa nuova possibilità e considerando il fatto di essere in trappola, optai per arrendermi. 
Se avessi dimostrato di essere innocente, magari questo ragazzo avrebbe potuto aiutarmi.
«Cos'altro vuole sapere?» Provai a passarmi una mano tra i capelli ma non ci riuscii, perché le manette mi costrinsero a lasciarla sopra il bracciolo della portiera. Sbuffai. 
«Tutto l'accaduto.»
«Le ho già raccontato tutto.» Insistetti. «Ero al Saturn, il mio amico non si è presentato, e sono uscita per prendere una boccata d'aria dato che odio essere schiacciata da ventimila corpi sudati, poi Ray ha tentato di farmi del male. Sono scappata, ovviamente, ma dopo poco sono inciampata su alcune bottiglie di vetro, e mi sono fatta male alla gamba come può vedere.» Mi interruppi sollevando la parte ferita sotto i collant bucati e: «Non potevo fare molto, zoppicando, perciò mi sono nascosta ma lui mi ha trovata. Ha cercato di...» Deglutii, perché ripensare alle mani di Ray sul mio corpo mi fece rabbrividire e: «Lo sa quello che mi voleva fare, e ho provato a difendermi conficcandogli un pezzo di vetro nella spalla, e sono fuggita dalla sua presa, ma proprio per poco. Lui mi ha messo le mani al collo e ha tentato di strangolarmi, poi una ragazza con dei capelli blu mi ha salvata e mi ha detto di correre.» Osservai il vuoto fuori dal finestrino e: «L'ho ascoltata, ma lei mi ha arrestata solo perchè crede che io abbia spacciato al Saturn, quando lì avrò passato si e no venti minuti.» Conclusi.
L'abitacolo si riempì del suono dei nostri respiri: il suo lento come le onde che si infrangono sulla sabbia, il mio irregolare come un terreno dissestato, e mentre stavo aspettando che lui si decidesse a degnarmi di qualche parola, mi maledii per per avergli rivelato di aver ferito Ray.
«Difendermi da quel viscido è stato, forse, l'unico reato che avrei potuto commettere.» Mi giustificai. «È legittima difesa, in quel caso, ma ne riparliamo. Si ricorda, invece, qualcosa in più sulla ragazza che l'ha salvata?»
Scossi il capo. Eravamo ancora al buio, ma ero sicura che avesse colto il mio cenno nell'oscurità perchè potevo sentire il suo sguardo bruciare su di me. Fui tentata più volte di girarmi nella sua direzione, per incontrare i suoi occhi, ma rimasi immobile continuando a fissare la strada davanti a me. I miei pensieri corsero prima alla mia salvatrice e poi a Heath, quindi mi domandai che fine avesse fatto, se mi stesse continuando a cercare oppure se avesse preferito andarsene dopo aver capito che sarebbe stato rischioso rimanere lì. Magari avevano arrestato pure lui.
«Okay.» Sentii un fruscio accanto a me, e supposi fossero le sue mani che passavano sulla stoffa del jeans.
«Okay?» Aggrottai le sopracciglia, guardandolo di sfuggita mentre estraeva dal giubbotto di pelle un apparecchio digitale, probabilmente una radio trasmittente. Schiacciò un pulsante specifico e: «Lyle, sono Haywood. Se mi stai ascoltando, ritorna alla macchina.»
«Per ora.» Aggiunse.
Haywood.  L'agente impertinente aveva finalmente un nome. 
Mi sistemai meglio sul sedile e nascosi un sorriso compiaciuto: avrei potuto fargli cambiare idea, dopotutto.
Nel muovermi, dimenticai gli oggetti che lui mi aveva lanciato, che caddero sul tappetino accanto alle mie scarpe. Imprecai, piegandomi in avanti per riprenderli, quindi li afferrai, li spolverai -per quanto possibile- e gli restituii innanzitutto il distintivo.
«Posso chiamare il mio amico adesso? Prima che lei mi arrestasse mi è sembrato di vederlo fuori dal locale.» 
Haywood riprese il suo distintivo, sfiorandomi le dita, e senza degnarmi di uno sguardo lo ripose nel suo giubbotto e tirò fuori dalla tasca dei jeans il cellulare. Il formicolio alle mani tornò più fastidioso del precedente, perciò le impegnai giocherellando con la tessera che non gli avevo ridato. 
La mia attenzione, invece, era concentrata sul suo profilo nella speranza che stabilisse un contatto visivo con me. Non avevo ancora incontrato i suoi occhi e, minuto dopo minuto, quella mancanza si stava trasformando in esigenza.
«C'è sicuramente un motivo se il presunto Ray ha provato a farle del male. Mi dica cosa gli ha fatto e poi chiamiamo chi vuoi.» 
Si voltò, ma questa volta fui io a fuggire dal suo sguardo perchè mi aveva messo nuovamente in una posizione difficile. 
Scrollai le spalle, sorridendo amaramente, e poi scossi il capo per l'insistenza di Haywood. Stava solamente svolgendo il suo lavoro, ne ero consapevole, però mi ero esposta fin troppo. Lui mi aveva aiutato diverse volte e gliene ero infinitamente grata, ma al tempo stesso avrei dovuto essere oggettiva e riconoscere il fatto che avrebbe goduto a sbattermi in prigione se solo gliene avessi dato motivo. Per questo, non gli avrei raccontato realmente come ci fossi finita in quel pasticcio.
«Ho risposto male ad un suo amico.» Abbassai lo sguardo, aprendo il portatessere di colore scuro sulle mie gambe e: «Sono stata sincera, lo giuro. Adesso vorrei davvero sentire il mio amico.» Mormorai pensando ad Heath che, forse, avrebbe potuto tirarmi fuori da questa situazione senza coinvolgere anche Ivor e Montgomery. 
«Per favore.» Aggiunsi prima che potesse chiedermi altro, ma ciò non avvenne, dato che rimase in silenzio. 
Stava studiando la situazione, soppesando le sue possibili scelte, e lo capii sotto ogni punto di vista, ma io avevo bisogno di chiamare Heath. Se Haywood avesse voluto portarmi in centrale per interrogarmi meglio non mi sarei opposta, ma a patto che prima mi avrebbe fatto parlare con il mio amico. Al contrario, se non mi avesse permesso di sentirlo mi sarei opposta e sarei rimasta muta come una tomba.
«Lo sa a memoria il numero?» 
Haywood mi sorprese quando mi posizionò il telefono davanti agli occhi, sopra la tessera che mostrava la sua immagine a mezzo busto, -difficile da osservare soltanto grazie alla flebile luce dello schermo-, e mi incitò a comporre il numero sulla tastiera. Allungai una mano, toccando il dispositivo, e lo spostai insieme alla sua mano sul grembo di Haywood, sfiorandogli le dita.
«No, in realtà non so quale sia. Il mio telefono si è rotto, e non so il numero a memoria. Lei è un poliziotto, però. Potrebbe trovarlo, no?» Riportai il mio sguardo sulla foto di Haywood e lo spostai verso destra, dov'erano raccolte le credenziali. Lessi il suo nome, ma prima che potessi decifrare nel buio anche il suo cognome, fui interrotta.
«Nessun problema.» Sospirò. «Come si chiama?» 
«Heath...» Accarezzai il pezzo di plastica tra le mie mani e chiusi gli occhi per cercare di ricordare il suo cognome, quindi con le sopracciglia ancora aggrottate li riaprii scovando quello di Haywood. 
«Heath...» Ricominciai, con la bocca asciutta. «Atkinson
Incontrai i suoi occhi verdi e mi si gelò il sangue nelle vene.
Lui si chiamava Haywood Atkinson.
Era il fratello di Heath.

N/A
Ciao a tutti! Bentornati! Com'è andata la vostra settimana?
Come avrete notato, questa settimana ho deciso di aggiornare soltanto oggi. Per questioni pratiche, dato che passo molto tempo studiare per l'università, le modalità di aggiornamento fino alla sessione estiva saranno le seguenti:
-una settimana × un capitolo
-una settimana × due capitoli.
Ma bando alle ciance. Come vi è sembrato il capitolo di oggi?
Io lo descriverei come curioso. 
Interessante infatti è come i nostri protagonisti si incontrano per la prima volta. Che dire! È subito un grande caos!
Haywood arresta Edith, convinto che faccia parte del giro losco del Saturn e che, per questo motivo, lei stia cercando di scappare. Un'intuizione che non è giusta, ma nemmeno tanto sbagliata.
Alla fine, però, Haywood si decide ad ascoltare la sua versione dei fatti e qualcosa sembra cambiare: devia il protocollo. Invece di scortarla in centrale la fa sedere, la sfiora e rispetta i suoi tempi. Perché?
Forse quel tocco ha scatenato qualcosa di ignoto oppure è l'idea di essere vicino alla sua famiglia che lo fa andare in tilt. Forse perché sfiorarsi è stato come scottarsi. Forse perché non si è trattato soltanto di sollecitare la pelle ma di toccare dei tasti che nemmeno sapevano di possedere dentro. Un grande guaio per entrambi, insomma.
Il capitolo si conclude con un colpo di scena per Edith: Haywood è il fratello di Heath. Cosa accadrà?
Questo lo scoprirete nel prossimo aggioramento! E vi avviso, ce ne saranno delle belle. Tre caratteri forti che si incontrano non possono che distruggersi a vicenda. Ma nulla è detto! La vita è fatta di sorprese, no?
Spero che la lettura sia stata gradevole. Se vi va, potete lasciare una stellina o un commento. Inoltre vi ringrazio per le visualizzazioni e per i voti, e come sempre potete seguire l'account Instagram @succederebbetutto per anteprime ed eventuali avvisi. Noi ci sentiamo presto!
Ari🌷

Succederebbe Tutto - H.S.Where stories live. Discover now