Prologo

319 18 221
                                    

Lasciai che lo zaino scivolasse a terra con un tonfo e attraversai barcollando il salotto.
Non riuscivo a respirare. Il sangue incrostato mi aveva tappato le narici.

Un raggio di sole era riuscito a penetrare nel salotto, illuminando il solito divano grigio davanti al piccolo televisore posto sulla parete turchese.
Sembrava tutto così calmo, invece, proprio in quel momento, si stava scatenando l'inferno.

Entrai in bagno tremando come una foglia. Ero salva. Ero a casa mia. Perché avevo ancora paura? Non potevano più farmi del male, non sarei mai più andata a scuola.

Con movimenti lenti e curati mi tolsi la mia felpa verde strappata e sfilacciata, dove si potevano vedere ancora le macchie lasciate dalle cicche che ci avevano attaccato sopra.

E pensare che un tempo era la mia preferita.
Ho sempre amato il verde, mi ricorda il mio cognome: Greenwood, bosco verde.
Sentivo sempre di persone che se ne infischiavano del loro cognome, che non ci facevano nemmeno caso e a volte lo cambiavano, io invece ci prestavo molta attenzione e ne andavo fiera.

Con la mia famiglia almeno una volta al mese andavo a fare passeggiate nella Hudson Valley, in mezzo alla natura verdeggiante.
Ma d'inverno, quando il freddo ghiacciava le strade e i boschi erano troppo umidi, era meglio rimanere a casa e guardarsi dei film con in mano una cioccolata calda e un sacchettino di popcorn al caramello.

Mi guardai le braccia fin troppo magre, colpa di tutti i pasti che avevo saltato a causa di quegli idioti che me li buttavano addosso per fare più visualizzazioni. Erano piene di lividi che partivano da uno strano verdognolo al viola, quasi nero. Non che fosse una novità per me, ormai ero abituata a vederle sulla mia pelle ed ero diventata abilissima a nasconderle ai miei genitori con fondotinta o vestiti lunghi.

Riempii d'acqua un bicchiere di plastica, ignorando che sotto era bucato e che stava bagnando le piastrelle del pavimento, e ingoiai un antidolorifico sospirando amareggiata.

Sentii il mio telefono vibrare. Lo ignorai.
Vibrò ancora e ancora e ancora e ancora... finché non cadde a terra.
Non lo raccolsi nemmeno. Non volevo vedere, non ero pronta a vedere.

Il mio telefono era totalmente distrutto ed era un miracolo che si accendesse ancora.
Quei ragazzi lo avevano ridotto così male che era irriconoscibile. Io ero irriconoscibile.

Mi guardai allo specchio appoggiandomi al lavandino e vidi una ragazzina stanca di vivere una vita da oppressa, con due occhi nocciola spenti e dei grossi occhiali neri crepati che avrebbero dovuto proteggere quelle iridi piene di speranza e invece non ce l'avevano fatta.

Mi legai i capelli mori in una coda bassa, gemendo ad ogni movimento, e decisi di raccogliere il telefono da terra.

La curiosità aveva vinto.

C'erano centinaia se non migliaia di notifiche tutte uguali ma mandate da persone diverse, la maggior parte erano di numeri sconosciuti che non so come erano riusciti ad ottenere il mio contatto. Tutte quante dicevano "burning photo" o "dumb b*tch" o "just die assh*le".

Digrignai i denti e scagliai il telefono contro il muro, lasciando che si rompesse del tutto. Schegge metalliche volarono ovunque e pregai che mi colpissero.

Non avevo più bisogno di un telefono, non di quello. Ne avrei preso uno nuovo e avrei cambiato numero. E se non avessi trovato i soldi per pagarmelo lo avrei rubato. Non mi interessava più nulla.
Volevo solo scomparire...

«Cosa ti è successo?»

Alzai lo sguardo e vidi un diciassettenne dai caldi occhi verdi e i capelli del mio stesso colore.
Lui non aveva lo sguardo stanco come il mio, tutt'altro, era solare, vispo, perfetto.
Quanto invidiavo mio fratello.

I Temibili 10Hikayelerin yaşadığı yer. Şimdi keşfedin