7. IL CIMITERO

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C'era una cosa che dovevo fare. La facevo almeno una volta a settimana. Era una sorta di appuntamento fisso. Uscii usando la porta sul retro e avanzai, lungo il sentiero pieno di pietre, sotto le chiome degli alti alberi. Il cielo gocciolava malinconia e prometteva tempesta. Mi strinsi un po' di più nella mia giacca, in parte per proteggermi dal vento, ma soprattutto dalla tristezza che mi scuoteva. Il cimitero si trovava in cima a una piccola altura. Mi sforzai di non guardare il grande maniero. Algol era là dentro in quel momento? Stava forse guardando giù? Scrollai la testa, ignorando la sensazione di gelo che mi percorreva tutto il corpo. Lui guardava sempre, lui sapeva tutto... era un demone. Inspirai a fondo e superai il cancello nero, in ferro battuto, che, mosso dal vento, cigolò. Benvenuti nel regno dei fantasmi e dei vampiri!

La tomba a cui ero diretta era poco lontano dall'ingresso, nell'ala vecchia del cimitero. Lì le lapidi erano più trascurare, alcune addirittura distrutte. Edera verde si arrampicava su molte di loro. Proseguii dritta, senza indugio, fino a quando non giunsi a quella che stavo cercando, davanti alla quale mi lasciai cadere.

–Scusa se non ti ho portato dei fiori- sussurrai –diciamo che ero di fretta- mi sforzai di sorridere.  Era strano recarmi lì, mi percorreva ogni volta una sensazione di gelo. -Ciao, mamma- sussurrai. Attesi, il cuore in gola. Nessuna risposta.  Non c'era mai una risposta, pensai con amarezza. Mi chiesi, in quel momento, se ci si abitua mai al vuoto che lasciano certe persone. L'incidente era avvenuto quando avevo otto anni. Mio padre non amava parlarne, non mi aveva neppure portata al funerale. Era stato solo dopo molte insistenze che finalmente mi aveva mostrato la tomba. In quel periodo il rapporto con la zia Merce si era fatto più intenso. Lei mi aveva insegnato che ogni persona deve avere una passione, solo questa riesce a tenerci vivi. Lei aveva la cucina, i piatti in cui metteva tutto ciò che provava, dal dolore alla gioia. Aveva provato a trasmettermela, ma io non ero mai riuscita  entrarci in contatto fino in fondo.

-Non è la tua strada, chica- mi aveva detto un giorno Merce, mentre impannavamo del pesce -ma se ci metterai passione vedrai che ne uscirà qualcosa di buono- aveva aggiunto, la pelle olivastra, così diversa dalla mia pallida, che brillava.

La prozia Merce era stata il punto di riferimento della mia infanzia. Era lei che mi aveva insegnato la torta Rose Cake, che mi aveva confidato l'ingrediente segreto con un sorriso divertito sulle labbra, strappandomi la promessa di non rivelarlo mai a nessuno.

-Questo è un segreto di famiglia, chica, non si deve rivelare a nessuno- si era raccomandata -marmellata di rose-

-Rose?- avevo domandato, confusa.

-Sì, petali di rosa- 

La marmellata alla rosa aveva un sapore delicato, che accarezzava teneramente il palato. Un gusto unico, che faceva pensare a una notte estiva passata a osservare le stelle con la persona che si ama.

Sospirai. Era grazie a Merce che avevo imparato che nel cucinare bisogna metterci passione, altrimenti si sente che manca qualcosa. E poi anche Merce era morta.

Ingoiai il nodo che mi stringeva la gola. Non volevo piangere. La mia mente volò a quando mia madre mi leggeva "Le mille e una notte". Sognavo così luoghi incantevoli che nulla avevano di reale. Da quelle pagine ingiallite si sprigionava una magia che non avevo mai conosciuto. Luoghi lontani, incantesimi, principesse, duelli. E soprattutto il lieto fine. La folle certezza che tutto sarebbe andato bene. Da bambina credevo che l'uomo avesse inventato le fiabe proprio per questo, per sperare nel lieto fine. Nella realtà però il lieto fine semplicemente non esisteva.

La pioggia iniziò a scendere all'improvviso, scrosciando violentemente, battendo contro le lapidi di pietra, le grandi statue di marmo, la terra ricoperta da pochi ciuffi d'erba. L'acqua gelida mi cadde sul viso, simile a lacrime, mi bagnò i capelli, la giacca, i pantaloni, qualsiasi cosa. Acqua gelida come neve che mi accarezzava la pelle. Un singhiozzo mi sfuggì dalle labbra e scoppiai a piangere prima di potermene rendere conto. Il mondo mi crollò addosso. Era quella la mia vita? Il diciottesimo di una ragazza non dovrebbe essere il momento più bello della propria vita. Lo vidi attraverso i miei occhi pieni di lacrime. Sbattei le palpebre per cercare di mettere a fuoco ciò che avevo davanti. Sulla lapide c'era qualcosa, come il lembo di un foglio. Improvvisamente mi resi conto che era strano. Una parte di me urlava che qualcosa non andava. La pioggia perse d'importanza. Mi allungai e afferrai quel lembo che era mosso dal vento. Viscido. Feci una smorfia, poi lo tirai. Il mio polpastrello ferito lanciò un grido di dolore, ma io lo ignorai. Quella specie di foglio era in realtà un adesivo. Lo guardai staccarsi, un misto di sorpresa e incredulità, a poco a poco. Una scritta comparve sotto di esso.

1897-1986

La fissai confusa. Non era possibile, non poteva essere, doveva esserci un errore. La persona che era sepolta lì era morta da molto tempo ormai e aveva vissuto quasi novant'anni. No, non poteva...

La pioggia smise di colpirmi il viso. Voltai la testa, capelli bagnati che mi sferzarono le guance, e incontrai un paio di gambe, fasciate dai jeans neri. Risalii su, sempre più, sfiorai una giacca di pelle dello stesso colore e alla fine vidi lo sguardo violetto di Algol. Sentii il corpo irrigidirsi e gelarsi, come se fossi stata una scultura di ghiaccio. I suoi occhi sembravano volermi divorare, li sentivo quasi bruciarmi. Fuoco e gelo. Una sensazione per cui le parole non bastavano, che mi stropicciava l'anima, lasciandomi dolorante e stranamente ansiosa. Sentii il cuore sussultare in attesa di qualcosa che non sarebbe arrivato.

-Speri di diventare una sirenetta a furia di stare sotto la pioggia?- chiese Algol, la voce caustica e la mascella tesa -Perché secondo il mio modesto parere potresti ammalarti, non un grande risultato- i capelli, sparsi con un perfetto disordine sul suo viso, gli davano l'aria di un pirata. Era così bello da fare male. -E io non posso coprirti in eterno- continuò.

Solo in quel momento mi resi conto che stava tenendo sopra di me un ombrello. Deglutii, cercando  di scacciare le lacrime. Avrei voluto rispondergli male, ma non ne avevo la forza.

-Su, alzati, Cenerentola- borbottò, un lampo che gli illuminava il viso, dandogli un aspetto ultraterreno.

Inspirai a fondo. –Vattene- dissi in un debole sussurro. Avevo bisogno di riflettere, le tempie mi pulsavano... non riuscivo a riflettere. Un tuono scosse l'aria, ma non m'importò. Nulla era importante, tranne arrivare a una conclusione... 1986, la donna che si trovava in quella tomba era morta nel 1986. Troppo presto.

-Come preferisci- Algol si piegò in avanti e mi afferrò per il braccio. Mi sentii andare a fuoco. La sua stretta era salda, risoluta, forte. Non cercai neppure di liberarmene e lui mi sollevò come se non pesassi nulla. –Non so che cos'hai, ma non mi piace vedere le donne piangere- mi tirò con sé -e mi piace ancora meno lasciarle sotto la pioggia-

Camminai come un robot, senza sapere cosa fare o cosa dire. Stavo recitando in uno spettacolo senza conoscere le mie battute. Algol era il demone, era il mio nemico, eppure in quel momento... avevo solo bisogno di pace. Barcollai, le scarpe che affondavano nel pantano che si era formato a terra a causa della pioggia. L'unico pensiero però, mentre Algol si lamentava della testardaggine del genere femminile, era la tomba. Se non era di mia madre...

-Sei fradicia- si lamentò Algol, passandomi il braccio intorno alla vita per sostenermi.

-Cosa t'importa di me?- ruggii, riportata violentemente alla realtà.

Lui non replicò, ma continuò a spingermi con forza. Non protestai più, neppure quando mi resi conto che mi stava conducendo verso il grande maniero. Mi sentivo vuota. Il portone si aprì con un forte cigolio. Il buio era tale da soffocarmi. Il cuore mi tuonò nel petto, ad avvisarmi che quel luogo era pericoloso. Un temporale stava esplodendo dentro di me. Algol mi sciolse dalla sua stretta, lasciandomi un senso di freddo, vuoto e confusione. Come ci riusciva? Senza parlare mi precedette e svoltò a destra. Lo seguii e mi ritrovai in una grande stanza con un caminetto e sopra di esso un quadro che mi trasmise un brivido. Una donna sovrastata da un essere proveniente dai più oscuri incubi. Era di Algol, solo i suoi dipinti potevano smuovere l'anima in quel modo.

-Siediti lì- mi disse, indicando il divano con le zampe da leone. Beh, il suo assomigliava molto a un ordine.

Avanzai lasciando delle pozzanghere d'acqua sul pavimento di legno. Mi sfuggì una risatina isterica dalle labbra al pensiero che si sarebbe rovinato, ma non aveva importanza.

Solo in quel momento mi resi conto di quanto sciocca fossi stata. In una situazione normale non mi sarei mai fatta condurre fin lì. Brividi gelidi mi accarezzarono la spina dorsale. Ero nella tana del lupo, questa era l'unica cosa che contava. Come sarebbe finita quella storia? Beh, speravo solo di non essere divorata.


NOTE DELL'AUTRICE:

Ciao!

Cosa ne pensate della scoperta di Sherry?
E dell'intervento di Algol?

A presto

Baciami, poi ti spiego (a Cinderella story)Where stories live. Discover now