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La mattina seguente mi svegliai col rumore di una fottutissima moto che passava correndo sotto casa. Gli tirai qualche maledizione e notai qualcosa di strano nella stanza. Troppa luce. Mi alzai di colpo tirando via le coperte, che ore erano? 

Percorsi il corridoio a grandi passi convinta di trovare mia madre in salotto, ma non c'era. Spostai lo sguardo sul grande orologio della cucina, le 6,28: avrei dovuto fare colazione in fretta, lavarmi a pezzi e infilarmi qualcosa al volo. Lasciai il letto disfatto, cosa che odiavo fare anche se ero oggettivamente disordinata. Rappresentava il culmine del disordine, non poteva essere nemmeno paragonato a cumuli e cumuli di indumenti che lasciavo sulla sedia per giorni. Comunque, dopo aver spezzettato quattro biscotti nella tazza del latte e aver ingoiato tutto senza usare il cucchiaino, mi lavai e indossai un paio di jeans e il golfino bluette corto che lasciava l'ombelico di fuori. E uscii di corsa.


Flavia era già alla fermata, appoggiata al palo con gli orari, mai rispettati, dell'autobus, la borsa per terra e in mano il libro di economia. I capelli rossicci e mossi le cadevano davanti agli occhi, mi chiesi come facesse a leggere. Le arrivai a un paio di metri e gettai il mio zaino ai suoi piedi. Sollevò lo sguardo: «Questa stronza oggi interroga!» Non era una novità, interrogava sempre. In quella scuola si sarebbero dovute studiare principalmente le lingue, invece avevamo passato il biennio con i libri di matematica e chimica in mano e il triennio con quelli di economia e diritto. Senza dubbi sarei stata una bravissima avvocatessa, me lo sentivo ma non ci aspiravo. Mi vedevo nelle aule di tribunale a distruggere psicologicamente i testimoni, con la mia espressione da bastarda stampata in viso e l'arroganza che tiravo fuori quando ero convinta di avere ragione e mi facevano incazzare. Mandando al patibolo assassini e stupratori, avrei fatto piazza pulita e allargato la pena detentiva a coloro che mi urtavano il sistema nervoso e soprattutto a quelli che passavano con le moto rumorose o gli automobilisti che suonavano il clacson per avvertire le persone che erano sotto casa ad aspettarle, invece di usare il citofono, e avrei riportato in auge la tortura per i tifosi di calcio e i fumatori e... «Ginevra, sta arrivando l'autobus, riprendi lo zaino».

Fortunatamente non dovemmo lottare per salire, certo non c'erano posti liberi a sedere, ma essendo sabato solo gli studenti e pochi altri prendevano i mezzi a quell'ora. Quindi tirai fuori il libro di economia e iniziai a ripassare.

Alla fine la professoressa di economia interrogò ma non me. Volarono un paio di due e un cinque e, soddisfatta della scorpacciata giornaliera di insulti mormorati a mezza bocca e pensati ad alta voce, spiegò per il resto del tempo.

Le successive ore di lezione con gli altri professori passarono lente, senza lasciare troppi strascichi, e mi permisero di tornare ai miei tormenti, ormai con la mente libera dall'ansia che mi aveva procurato la paura dell'interrogazione.

Quindi, realizzai, non mi aveva chiamato. Cioè, la sera prima era tornato e non mi aveva chiamato. Cominciai a sentire la rabbia crescermi dentro, convinta del fatto che di sicuro si era visto con i nostri amici e non si era minimamente preoccupato di telefonare per salutarmi. Iniziarono i dolori allo stomaco, sensazioni di vertigini e un forte dolore al petto. Le mie braccia iniziarono a fremere, ansiose di fare qualcosa, qualsiasi cosa pur di liberare la testa da quella sensazione di vuoto che scendeva giù fino a bucarmi il torace. Il luccichio delle forbici nell'astuccio aperto attirò la mia attenzione, uno spicchio di luce argentata mi sorrideva beffarda, seducente. Il foglio si bagnò. Le lacrime che iniziavano lentamente a scendere andavano a morire sul quaderno di arte, che prontamente le assorbiva. Avvertii una botta sul gomito, e vidi un fazzoletto di carta passare nello spazio tra il mio braccio piegato e la testa che giaceva sopra. Feci un piccolo gesto con la testa come ringraziamento a Viviana, senza però girarmi verso di lei, e mi sentii sussurrare all'orecchio: «Mandalo affanculo!».

GinevraWhere stories live. Discover now