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In meno di un minuto già avevo quattro mani addosso che mi riportavano in uno stato decente, o almeno così immaginai, visto che mi mandarono sul palco. Passarono il trucco pure sulle braccia anche se la maggior parte del tempo la spesero a coprire il segno rosso sul viso lasciato dallo schiaffo. Mi sentivo fatta e quella sensazione non era poi così male, compresi il motivo per cui le persone si drogavano.

Mi ritrovai di nuovo Damien a fianco, mi stava osservando, chissà che pena gli stavo facendo. O forse gli davo fastidio. A quel punto poco importava, i miei ultimi ricordi di lui sarebbero stati quelli, avrebbero fatto comunque schifo.

L'orchestra iniziò a suonare e io cercai di ricordarmi se fosse esattamente quella la canzone che dovevamo cantare. Non riuscii proprio a pensare lucidamente, cantai lo stesso.

Quando quell'agonia finì, dopo i lunghi applausi, mi diressi insieme alle altre dietro le quinte dove Mathias mi strappò dal gruppo, aveva il mio giubbotto e la mia borsa. Mi lasciai condurre fuori, stavo avendo difficoltà a reggermi in piedi e vedevo tutto offuscato, attraversammo dei corridoi spogli, verso un'uscita secondaria e lì mi fece trovare un'ambulanza pronta ad aspettarmi.

«Non mi odiare ma non puoi tornare a casa così, non sei al sicuro da te stessa.»

Lo guardai, come si guarda un piccione. Con indifferenza. Non ce l'avevo con lui, come avrei potuto? Ero fuori di testa ma ancora ragionavo.

I due infermieri mi fecero salire e mi iniettarono subito una flebo di qualcosa. Cosa fosse poco importava, dove mi portassero anche. Volevo solo dormire, per sempre.

«Qui ci penso io, poi ti raggiungo.»

Passai due giorni intontita dai farmaci. Beh, in realtà quando finì l'effetto dei primi che mi avevano somministrato e avevo dato di matto cercando di ferirmi con tutto quello che avevo trovato in giro, aumentarono la dose.

Ogni tanto aprivo gli occhi e trovavo Mathias lì vicino a me. Cosa ci stava a fare? Perché non mi lasciava lì e se ne andava a ballare da qualche parte? Non eravamo amici, non si doveva sentire in dovere di aiutarmi.

Sognai anche Damien, solo una volta, fu un sogno bello, sereno, si avvicinava molto alla realtà vissuta. Quando mi svegliai mi strappai gli aghi delle flebo facendomi male e sporcando di sangue le lenzuola. Entrarono degli infermieri, poi fu di nuovo tutto bianco.

A volte aprivo gli occhi e Mathias provava a dirmi qualcosa su mia madre, qualcosa riguardo al fatto che gli aveva raccontato delle cretinate mandandole dei messaggi col mio cellulare, ma che se continuavo a fare così sarebbe stato costretto a chiamarla.

Riuscivo a pensare poco e con difficoltà perché ero sempre stordita dai farmaci, nonostante questo realizzai che dovevo comportarmi meglio. Lì non stavo così male: nessuno che mi parlava, nessuno che conoscevo a parte Mathias, era tutto asettico. Però, quanto tempo ancora sarei potuta rimanere? Allora era meglio andarmene con le mie gambe piuttosto che essere trasferita altrove e dover far sapere tutto ai miei. Considerai anche che fosse il caso di pensare al mio futuro, a quello che avrei fatto una volta tornata a casa.

«Quanti giorni sono passati?» Mathias era seduto su una sedia accanto al mio letto con una rivista in mano. Mi fece pena, era pallido, aveva le occhiaie.

«Questo è il quarto.»

La domanda successiva avrebbe dovuto essere "Lui è partito?", non la feci e lui non aggiunse nulla. Era ovvio che fosse andato via, chissà cosa c'era scritto su tutti quei messaggi che mi aveva mandato e che avevo cancellato senza leggere. Forse le stesse cose che mi avrebbe detto a voce se avessi risposto a una sola delle sue telefonate.

I due giorni seguenti li passai facendomi vedere migliorata nell'umore, nel comportamento, mi sforzai di mangiare, parlai con gli psichiatri dell'ospedale e mi dimostrai pentita per la mia reazione esagerata, sicuramente era dovuto anche all'accumulo di stress per lo spettacolo. Ora era tutto passato, finito. Raccontai di avere una bella famiglia, tanti amici affettuosi, di essere brava a scuola e di avere mille progetti per il futuro, di volermi iscrivere all'università e di voler viaggiare tanto. Chiamai mia madre e le parlai confermando le bugie di Mathias, raccontandole che ci avevano portato qualche giorno fuori, a casa di Pinco Pallino, che con la scuola non c'erano problemi perché sarei rientrata presto e avrei recuperato, che Flavia e Viviana non erano state invitate e per questo le aveva viste in giro. Mi sarebbe dispiaciuto farla preoccupare, non ce n'era bisogno, non se lo meritava. Nel frattempo venni a sapere che lei e mio padre erano andati nella nostra casa di campagna per seguire dei lavori sul tetto.

Così, a distanza di una settimana dal concerto, firmai l'uscita dalla clinica privata, nonostante i medici avrebbero voluto tenermi qualche altro giorno per poi indirizzarmi altrove. Però io avevo diciotto anni e potevo decidere, oltretutto mi ero dimostrata rinsavita e consapevole di quello che avevo fatto. Per cui, col foglio di dimissioni e le ricette delle medicine in mano, presi un taxi cercando di sbrigarmi ad andarmene per non incontrare Mathias.

Arrivai a casa, vuota. Mi feci qualche calcolo, mio fratello sarebbe tornato dopo diverse ore. Meringa mi fece mille feste e anche Roby, mi seguirono fino alla mia stanza, dove i poster con le foto di Damien mi guardavano ricordandomi della mia perdita. Presi in pieno il muro con la testa. Iniziai a sbatterla così forte su quel cemento armato che ebbi la soddisfazione di svenire. Mi svegliai con le leccate dei miei cani sul viso, stavano gustando il mio sangue.

Non potevo continuare così. Dovevo affrontare la situazione in maniera diversa, più matura, fare tesoro dell'esperienza appena vissuta, era il momento di farsi un esame di coscienza. Durò poco, perché sapevo dove stavo sbagliando.

Mentre mi alzavo da terra mi scorsi allo specchio, avevo il viso tumefatto e sangue che mi colava dalla fronte e dal sopracciglio. Quasi mi venne da ridere.

Poi accesi lo stereo, scelsi una stazione radio dove passavano canzoni d'amore con pochi interventi pubblicitari e nessuno speaker che rovinasse l'atmosfera, alzai la musica ad un volume adeguato a sentirlo dal bagno dove mi diressi, tolsi le scarpe in segno di educazione ed entrai nella vasca.

In verticale, non orizzontale, mi ripetei in mente come se fosse il passaggio di una ricetta culinaria.

E mi tagliai le vene.

*****

Doveva ripetere quella scena per l'ennesima volta, ma niente, non riusciva proprio a rientrare nel personaggio di cui aveva vestito i panni per tanti anni.

La testa era altrove, ripercorreva le ultime ore passate con lei una settimana prima. Avrebbe potuto dire qualcosa di diverso? Cosa? Oltre che dichiararle quanto teneva a lei? Forse non lo aveva fatto in modo chiaro, magari dirle che l'amava mentre facevano l'amore non era bastato, non era stato capito.

Una furia, ecco cos'era diventata. L'aveva già vista arrabbiata ma mai così, era quello che intendeva quando parlava di perdere il controllo. Lo feriva che tutta quella rabbia fosse rivolta contro di lui, le aveva letto quasi un odio negli occhi, un rancore e un dolore che non avrebbe mai voluto procurarle. Aveva sperato che una volta spiegate le sue motivazioni avrebbe compreso il suo punto di vista. Ne era così convinto che non aveva dato retta a nessuno, né a Keira, né a Marzio, né a Mathias. Loro la volevano proteggere e l'unico che avrebbe dovuto farlo, per paura di perderla, l'aveva ferita così profondamente che non sapeva più come rimediare. Eppure continuava a pensare che se lei avesse avuto una data certa della sua partenza, si sarebbe allontanata da lui mettendogli un muro invalicabile davanti, non si sarebbe mai lasciata andare, avrebbe rinunciato a loro senza dargli il tempo di gettare quelle basi del loro rapporto che lui era convinto fosse cresciuto tanto nell'ultimo periodo.

Ma dove poteva essere andata?

Dopo l'ultima canzone l'aveva persa di vista. Mathias diceva di averla seguita fuori ed essersela lasciata scappare mentre saliva su un taxi. Dopodiché di lei non si era saputo più niente.

L'aveva aspettata sotto casa sua quella notte. E per l'intera settimana. Era partito con quattro giorni di ritardo facendo incazzare tutta la produzione, ma non aveva ottenuto nessuna informazione. L'aveva chiamata mille volte e mandato messaggi, niente. Le sue amiche più strette che aveva tartassato non sapevano dirgli nulla. A scuola non si era presentata.

Il terzo giorno aveva visto passare Lele e gli aveva chiesto se l'avesse sentita. Lo aveva guardato con accondiscendenza quando gli aveva chiesto di fare da tramite con i suoi genitori. La risposta della madre fu che era andata fuori, con quelli del coro, e Damien fu colto da una forte sensazione di disperazione. Aveva raccontato una bugia anche a loro per stare da sola.

Sempre tramite Lele, fece chiedere ai loro amici senza ottenere ulteriori informazioni. Chissà dove si era nascosta. E se lo aveva fatto, era solo a causa sua, solo per non incontrarlo più finché non fosse partito. Doveva almeno permetterle di tornare alla sua vita.

Il settimo giorno atterrò direttamente in Canada, portandosi dietro una delle tele dipinte, le altre gliele avrebbero spedite direttamente a New York. 

GinevraWhere stories live. Discover now