Capitolo quattordici.

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La voglia di lanciarla fuori dal finestrino mi tentò per tutto il viaggio in auto, tanto che sulla superstrada di Bayshore Freeway, dopo circa soli venti minuti che passavo in sua compagnia, meditai se fosse il caso di spingerla giù o meno

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La voglia di lanciarla fuori dal finestrino mi tentò per tutto il viaggio in auto, tanto che sulla superstrada di Bayshore Freeway, dopo circa soli venti minuti che passavo in sua compagnia, meditai se fosse il caso di spingerla giù o meno.

Nessuna, e dico nessuna, riusciva a farmi dare di matto come faceva lei. Lebo era una testarda del cazzo. Testarda e dispettosa.

«Hey, I just met you, and this is craazy», cantò a squarciagola, troppo vicina al mio orecchio, con il vento di sottofondo che ci sferzava per via dei finestrini che lei aveva abbassato. «But here's my number, so call me, maybe!».

Flettei le dita attorno al volante e pigiai con più forza il piede sull'acceleratore, facendola sbattere contro il sedile di pelle. Non la sopportavo più. Cantava e urlava da quando eravamo partiti, maledizione.

E se non cantava, sparava al massimo il volume. E se cambiavo canzone, lei rimetteva quella che voleva. E per di più, lasciava le sue cazzo di impronte sul display e sulla plancia della mia lucida Maserati.

«Te ne farò pentire, Lebo, sappilo!», alzai il tono, per farmi sentire al di sopra della musica e della sua voce starnazzante.

Cristo Santo, era stonata come una campana e quello non faceva per nulla piacere al mio scarso temperamento.

Di tutta risposta, lei si sporse verso di me, il palmo si strinse attorno al mio bicipite, e mi fracassò il timpano: «Before you came into my life, I missed you so bad!».

«Rora, porca puttana...»

«I missed you so bad, I missed you so, so bad!».

Distorsi la bocca in un sorrisetto falso e la scrollai via, schiacciandole una mano sul petto per rimetterla al suo posto. «Stai buona, cazzo».

«And you should know that», continuò, mentre io, dopo essermi immesso nella East Palo Alto, cercavo il telecomando per aprire il cancello di casa mia. «So call me maybe», concluse.

«Hai finito?».

Le lanciai un'occhiata di traverso, cercando di non farmi distrarre dall'azzurro delle sue iridi, le labbra piene come fragole mature o lo scollo della canottiera celeste.

La vidi sogghignare, prima che ricominciasse. «You know you love me, I know you care!».

«Fanculo».

A quel punto, intanto che dinnanzi a noi si estendeva il lungo vialetto costellato da ciottoli e breccia, Rora si fece sfuggire una risata, divertita e soddisfatta di avermi infastidito per tutto il tempo.

Affondai i denti nell'interno guancia. La sua risata, al contrario del canto, era il suo pezzo forte, un cavallo di battaglia.

Athos. Tessitrice di FavoleWhere stories live. Discover now