Capitolo trentasette.

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Mancavano tre giorni a Natale, l'aria frizzava in vista dell'incontro in diretta mondiale che si sarebbe tenuto quella stessa sera e io stavo uscendo dall'ufficio del rettore Greyson dopo un colloquio durato un'ora

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Mancavano tre giorni a Natale, l'aria frizzava in vista dell'incontro in diretta mondiale che si sarebbe tenuto quella stessa sera e io stavo uscendo dall'ufficio del rettore Greyson dopo un colloquio durato un'ora.

Un'ora di profonde scuse da lui, dalla sua famiglia e l'intera Stanford.

Seduta con le mani in grembo, dinnanzi al suo volto piegato dallo sconforto e il dispiacere, mi aveva sentita raccontare di pari passo tutte le mie vicende con Rhett, suo figlio.

Un po' come avevo fatto alla centrale di polizia quando avevo sporto denuncia. E un po' come avevo fatto quando ero riuscita ad accumulare il coraggio necessario per metterne al corrente anche i miei genitori.

Non era mai facile parlarne, non era mai facile ricordare e, ogni tanto, mi crepava nelle vene quel vago senso di vergogna per essermi lasciata sopraffare e aver taciuto così tanto.

Ma ce l'avevo fatta, e adesso Rhett doveva starmi ad almeno cinquecento metri di distanza e non poteva frequentare gli stessi posti che ero solita io a frequentare. Per di più, suo padre mi aveva promesso che non avrebbe mai più messo piede a Stanford.

Prendendo una bocca d'aria fresca, coi polmoni allargati dal sollievo, camminai in fretta verso la mensa, dove mi stavano aspettando i miei amici.

Nel tragitto, tra una zona verde e l'altra, dovetti rispondere a una telefonata di mia madre. Se già prima le capitava di chiamarmi ogniqualvolta le andava, e cioè spesso, ora non dormiva bene la notte se non mi sentiva almeno due volte al giorno.

«Stai andando all'aeroporto?», domandò frenetica, senza neppure darmi il tempo di salutare.

Roteando gli occhi, superai il dipartimento di lettere. «Ciao anche a te, mamma».

«Ebbene? Stai arrivando?».

«Ma quante volte devo ripeterti che ho il volo questa sera?».

Dio, era dalla mattina che continuava a inviarmi messaggi chiedendomi a che ora avessi l'aereo per Casper. E io avevo risposto a ogni dannato singolo messaggio.

Prima che potesse rimproverarmi, una voce nerboruta subentrò: «Ignora tua madre, piccola. Sta solo dando i primi segni dell'età che avanz... ahi! Maledetta donnaccia! Satana!».

Aggrottai le sopracciglia nel momento in cui si udirono dei rumori metallici di sottofondo insieme alle imprecazioni di papà. Sembrava che qualcuno lo stesse colpendo con... delle pentole.

Mi fermai per un attimo all'ingresso dell'edificio che ospitava l'aula magna, la mensa e la caffetteria.

«Lucas, te lo giuro, ma te lo giuro su nostra figlia, che prima o poi ti caccio di casa!», strepitò mia madre.

Athos. Tessitrice di FavoleWhere stories live. Discover now