Capitolo ventotto.

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«È un pulcino quello?»

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«È un pulcino quello?».

«Il suo nome è Pio».

Compressi le labbra in una linea retta. Chissà perché, ma la cosa non mi sorprendeva.

Raving, steso sul divano, inquadrò meglio il suo pulcino per farmelo vedere bene, poi la sua faccia tornò a riempire lo schermo del mio cellulare.

«Avevo bisogno di compagnia, mi avete lasciato da solo con questo vecchio bastardo», borbottò e spostò la fotocamera per mostrarmi papà al suo fianco, che gli diede una botta in testa. «Visto? Non sa comunicare, fratello!».

«Per l'amor di Dio, Raving, chiudi la bocca prima di ritrovarti con un occhio nero», sibilò mio padre, sicché si rivolse a me. «E tu si può sapere che stai facendo? Almeno ti stai allenando? Ancora non mi va giù questa storia che ve ne siete andati a sciare a tre settimane prima dell'incontro. Potresti farti male e mandare tutto a puttane».

«Cristo Santo, papà, rilassati. So quello che sto facendo e ho bisogno di una pausa relax prima della conferenza stampa, altrimenti sul serio rischio dì mandare tutto a puttane spezzando il collo di Weston».

A giudicare dalla sua espressione contrita, non sembrava pensarla come me, ma non me ne fregava un cazzo. Kevin Weston ormai erano giorni che continuava a rilasciare interviste dove spiegava nel dettaglio come mi avrebbe fatto piangere come un poppante, e io stavo iniziando a rompermi le palle.

Quindi sì, staccare era stato necessario.

Mio padre aveva tentato di convincermi a restare a Palo Alto per non interrompere gli allenamenti, peccato che non avrei mai tolto a Mitch e gli altri i loro meritati giorni di vacanza. Perfino Malik se l'era squagliata insieme a me, e questo la diceva lunga.

«E poi ti chiedi perché Nike è così viziato. È stato espulso e hai ben pensato di portartelo dietro in vacanza, senza neppure chiedermi il permesso».

Raving scoppiò a ridere. «Bella questa. Tu che ti ricordi di Nike».

«Che cazzo vuoi dire? Solo perché non vi coccolo da mattina a sera, non significa che non vi voglia bene o che non abbia cura di voi».

«Fatti un fottuto esame di coscienza, vecchio».

«Raving», mi intromisi, «lascia perdere. So che sei nervoso, ma bada a come parli».

Ce ne sarebbero state di cose da dire sull'argomento, ma non era né il luogo né il momento per farlo.

Sapevo che mio padre credeva in ciò che diceva. Ci voleva bene, eravamo suoi figli, ma aveva un modo tutto suo di dimostrarlo. Un modo che a quindici anni, quando ti senti sopraffatto dal mondo e sei sul punto di crollare, non riesci a comprendere né tantomeno ad apprezzare.

«Vado a chiamare Malik per discutere di alcune cose che è meglio», bofonchiò papà, irritato, con quella grinza che gli piegava le rughe sulla fronte. «Cercate di non combinare troppi casini».

Athos. Tessitrice di FavoleWhere stories live. Discover now