Capitolo trentatré.

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Lebo non mi rispondeva

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Lebo non mi rispondeva.

La conferenza stampa era stata un massacro. Non tanto per i giornalisti che amavano istigarci o il taglio del peso, ma per Weston che aveva avuto l'ardire di andare sul personale e tirare in ballo la mia famiglia.

«Dove hai lasciato tua figlia, Venom?».

E ora, io non ero uno psicopatico aggressivo con problemi di gestione della rabbia. Semplicemente, avevo fatto di tutto per tenere Mitch lontana dai riflettori e dal mio mondo. Era sempre stata una mia priorità tutelarla.

Poi spuntava dal nulla uno stronzo qualunque e sputtanava tutto in diretta mondiale, convinto di mandare avanti il suo show.

Kevin Weston era un pallone gonfiato che puntava alla spettacolarizzazione. E se questo era ciò voleva, io gliel'avrei dato.

C'erano voluti quattro bodyguard per dividerci, di cui tre per me, intenzionato più che mai a frantumargli quella faccia di cazzo sul tavolo.

Lebo non mi rispondeva.

Il Presidente dell'UFC si era dissociato da quanto accaduto. Non c'era stata davvero una rissa, ma i presupposti, prima che ci fermassero, erano proprio quelli. Almeno da parte mia. Ma comunque, in segreto, più tardi, si era congratulato per l'iniziativa. L'evento avrebbe fruttato ancora più audience.

Un pay-per-view di tutto rispetto. Ma la cosa più straordinaria non era che si trattasse di un main events, oh no. La sfida era sfuggita dalle mani di Weston, a tal punto che aveva finito per giocarsi il titolo. Razza di idiota. Gliel'avrei strappato via dalla testa con i denti, mi sarei preso la mia cintura a qualunque costo.

Meno di due settimane.
Mancavano meno di due settimane.
E poi fanculo a tutti i debiti che mi aveva lasciato Meg.

Ero ritornato a casa con la rabbia che ancora mi ribolliva nelle vene, e non mi aveva stupito granché trovare la matassa di giornalisti appollaiata dinnanzi al mio cancello. Un motivo in più per rompere tutte le ossa di Weston.

Lebo non mi rispondeva.

Il rientro era stato un po' un casino e, avevo sperato invano fosse una mia impressione, anche abbastanza teso. C'era qualcosa che non andava. Me l'ero sentito sottopelle.

Raving non mi aveva guardato in faccia. Mi correggo: non aveva guardato nessuno. Se n'era rimasto seduto sul divano a fissare il vuoto, accompagnato dalla sua fedele bottiglia di Jack Daniel's.

«Alla tua», aveva brindato al mio ingresso, e, intanto che si scolava l'alcol in veloci sorsate, mi era parso di sentirlo borbottare un «mi dispiace».

Athos. Tessitrice di FavoleWhere stories live. Discover now