Capitolo trenta.

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A svegliarmi fu uno scricchiolio, anziché il mio solito orologio biologico

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A svegliarmi fu uno scricchiolio, anziché il mio solito orologio biologico. Ero abituato a stare in piedi già dalle sei del mattino, pronto a lanciarmi in una corsa giù per Foothil Park, con mio padre e Tim, il mio allenatore, che cronometravano i tempi.

Stavolta no. Mi bastò una rapida occhiata al cellulare posto sul comodino per capire che avevo di già sforato di una buon'ora, e che mi trovavo da solo nel mio enorme letto, tra lenzuola di flanella ancora sgualcite e calde.

Di nuovo lo scricchiolio sinistro.

Mi stropicciai gli occhi assonnati e, confuso, mi tirai a sedere. Il lenzuolo mi scivolò giù per il busto nudo, aggrovigliandosi sul mio bacino, e mi passai una mano fra i capelli arruffati.

Poi la vidi. In piedi davanti alla mia cabina armadio, molto più piccola di quella che avevo a casa. Si trattava più di un normale guardaroba incassato nella parete, forse più spazioso della norma.

Ma non aveva importanza. Che cazzo, avevo Lebo vestita solo del mio maglione della sera precedente davanti a me, e io pensavo agli armadi.

Assottigliai le palpebre, puntai le pupille sul tessuto che le sfiorava le cosce nude e si solleva sul culo ogniqualvolta si protendeva in avanti. Aveva ancora degli aloni rossi sulla pelle bianca, memorie della mia frenesia e passione.

Affondai i denti nel labbro inferiore, col cazzo che si irrigidiva ogni secondo di più, quando afferrò una cravatta e mi rifilò un'occhiata da sopra la spalla. Aveva le guance scarlatte, le labbra gonfie dalla mia voracità e i capelli scompigliati.

«Oh, ti sei svegliato!», esclamò, voltandosi del tutto. Si appoggiò all'anta chiusa, lasciando l'altra aperta, e si rigirò la mia cravatta bordeaux tra le mani.

Emisi un sospiro, la mia mano scomparve al di sotto delle lenzuola. «Già», proruppi, a voce rauca.

Rora incrociò le caviglie, incurante della mia sanità mentale, e fece risalire la pianta del piede su per il polpaccio. Il maglione si accorciò sulle sue cosce, e la maratona di sesso selvaggio, che ci aveva tenuti impegnati per tutta la notte, scomparve nel dimenticato a cospetto di tutto ciò che volevo ancora farle.

«Te l'ha mai detto nessuno che hai un'ossessione maniacale? Voglio dire, i tuoi vestiti sono disposti in ordine di colore. E comunque hai proprio un sacco di camicie», parlottò, rigirandosi quel maledetto indumento tra le dita. «Che te ne fai delle camicie sulla neve, Mac? Questa è una malattia, sappilo».

Perché stava ancora parlando e non me lo stava di già prendendo in bocca?

Compressi le labbra in una linea retta, mentre lei attendeva una risposta, inclinai la testa e intrufolai le dita al di sotto dei miei boxer aderenti per toccarmi il sesso turgido.

Finalmente, gli occhi di Lebo ebbero un guizzo e calarono in picchiata in basso, dove la mia mano stava stringendo e accarezzando. Le si ingrandirono le iridi d'acqua, il suo petto si sollevò con un respiro brusco.

Athos. Tessitrice di FavoleWhere stories live. Discover now