Capitolo venti.

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Vivere con tante persone mi aveva insegnato una cosa nello specifico: non esisteva la privacy

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Vivere con tante persone mi aveva insegnato una cosa nello specifico: non esisteva la privacy. E allora dovevo ricavarmela da solo e affinare di più i sensi.

Perché se non avessi imparato a farlo, non avrei mai potuto percepire lo scandire dei passi; il rumore del pavimento calpestato o il balzo dalle scale che scendevano al piano inferiore.

In quegli anni con Mitch, poi, era diventato un istinto primordiale sentirla prima ancora di vederla. La cordicella invisibile, fatta d'acciaio inossidabile, che ci legava, vibrava a oltranza ogni volta che lei era nei paraggi.

La mia eccitazione si era sciolta all'istante, sostituita dal panico. Avevo fatto giusto in tempo a ricompormi un minimo e rivestire Rora, che lei era apparsa.

Non aveva visto nulla, l'innocenza e il sorriso genuino le imperlavano il faccino d'Angelo, ciononostante mi sentii una merda.

Sapevo che era in casa. Lo sapevo, cazzo.
Un conto era la mattina, quando tutti filavano via a lavoro, a scuola o all'asilo.
Un conto erano i miei fratelli. O mio padre.

Ma Mitch, mia figlia...

La tenni in braccio, la mano impigliata fra i suoi capelli biondi e lisci, e le appiccicai la bocca sulla guancia morbida, come a chiederle un silenzioso scusa, scusami per non averti pensata, mentre il senso di colpa mi divorava lo stomaco.

Sei tu la mia priorità.
Sei tu, tu e basta.

«Allora? Che c'è che non va?», insistei, mordicchiandole lo zigomo per toglierle via il broncio.

Tuttavia, mi accorsi in ritardo che l'attenzione di Mitch ormai era rivolta altrove. Verso un punto alle mie spalle. Verso una Rora ancora accaldata e sconvolta, in procinto di svenire nella mia palestra.

Sorvolai sui suoi occhi che mi fissavano esterrefatti. Non mi importava che mi stesse vedendo sotto un'altra veste, che stesse scorgendo un lato di me che tenevo ben protetto e custodito.

«E lei chi è?», sussurrò Mitch al mio orecchio.

Scoccai un'altra occhiata a Lebo, a cui tremarono le gambe nell'atto di scendere dalla gabbia per avvicinarsi a noi. Non ci schiodava le pupille di dosso. Abbozzai un sorrisetto storto.

«La tua tessitrice di favole», bisbigliai, affinché mi sentisse soltanto lei, e Mitch esplose in un sorriso tutto denti, dimenticandosi di qualunque cosa le fosse successo. «Ma shh, non dirle che tu lo sai. D'accordo?».

«Okay, okay! Promesso!».

Scalpitò tra le mie braccia, euforica di conoscerla, di sentirla dal vivo, dopo tutte le notti che aveva passato ad ascoltare quei maledetti podcast; l'unica voce in grado di calmarla ogni volta che piangeva, l'unica favola che le piaceva ascoltare prima di dormire.

Athos. Tessitrice di FavoleWhere stories live. Discover now