Capitolo quaranta.

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Non sai cosa significhi il vero terrore fin quando non ti ritrovi a un passo dal perdere ciò che ami di più al mondo

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Non sai cosa significhi il vero terrore fin quando non ti ritrovi a un passo dal perdere ciò che ami di più al mondo.

Avevo provato paura tante volte nella mia vita. L'avevo assaporata raschiarmi il palato, divorarmi le ossa con la smania di un demone.

Eppure niente, niente, fu anche solo lontanamente paragonabile al tremore cieco che mi percosse non appena misi piede allo Stanford Hospital.

Qualcosa più forte di me, un baluardo di lacrime trattenute e respiri strozzati, mi si abbarbicò su per le retine, rendendomi impossibile placare il mio passo veloce.

Stavo correndo. Con la camicia spiegazzata, messa alla bell'e meglio, le nocche frantumate e il sangue secco a incrostarmi la faccia, me ne fregai di quello che mi circondava.

Pensai solo a correre e correre e correre, alla stessa velocità del mio cuore turbinante.

Papà e gli altri mi stavano dietro, forse anche più sconvolti e spaventati di me. Vergo per poco non mi si schiantò addosso quando aprii le porte del reparto di Chirurgia Generale. Non l'avevo mai visto così pallido.

«Dov'è? Dov'è mio fratello?», biascicava a ripetizione, una nenia di panico, guardandosi attorno con l'aria di chi non era mai stato tanto sperduto.

Malik, l'unico che sembrava avere la testa più salda lì in mezzo, gli mise un braccio attorno alle spalle per guidarlo. «Forza, andiamo a chiedere al desk informazioni».

E non so se mio padre lo seguì, non so se lo fece Hamish.

Perché, l'attimo di girare l'angolo, e una vocina che riconoscerei ovunque strillò fino a farmi cadere in ginocchio.

«Papà!», urlò Mitch, gettandosi su di me, già pronto ad accoglierla e a non lasciarla andare mai più.

Inginocchiato la strinsi a me più forte che potevo. Me la volevo imprimere sotto la pelle, tatuarmela addosso come il suo nome che mi portavo sul polso.

Avvolsi le braccia attorno al suo corpicino, così piccolo, così delicato, e inspirai il profumo ai mirtilli, quel velo di sudore che la macchiava sulla nuca, e sei tu, amore, sei tu la cosa più bella che ho.

«Oh mio Dio, mio Dio», annaspai, mentre la voce mi si spaccava in tutte le note. «Stai bene, stai bene, stai bene...». Sei viva.

Lei annuì, intanto che le prendevo il volto fra le mani e le ispezionavo ogni singolo lembo di pelle, per accertarmi che non avesse neppure un graffio. Emise un gemito infastidito quando le piegai il collo, ma non importava.

Dovevo assicurarmene.
Dovevo sapere che era tutta intera.
Che era lì. Che Meghan non me l'aveva portata via. Che non le aveva fatto nulla.

«Papààà», mugolò, discostandosi un po', «sto bene, basta!».

Athos. Tessitrice di FavoleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora