Capitolo trentasei.

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In un'esistenza fatta di scelte, non avevo mai scelto me stesso

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In un'esistenza fatta di scelte, non avevo mai scelto me stesso.

Dispotico, impaziente, arrogante, eppure infinitamente consapevole.  Consapevole del mio destino piatto e ancorato a una famiglia senza speranze, così distante da quello di Rora Lebowski, fatto delle villette a schiera bostoniane, orari impossibili e anni di tirocinio.

Che vuoi che ti dica, Lebo?
Che ti amo anche io?
Non te lo meriti.

«Tieni alta la guardia, Athos!», urlò papà, mentre Tim mi bombardava di ganci e jab, come un pugile professionista.

Non te lo meriti uno come me, Rora, che sta dietro a guai, debiti, fratelli incasinati e responsabilità.

Affondai i canini nel paradenti, la disperazione a torcermi i legamenti e la rigidità scolpita nelle ossa, intanto che paravo tutti i colpi del mio allenatore e rispondevo al fuoco col fuoco.

Ti meriti un uomo che possa seguirti a Cambridge, qualcuno che non potrà mai pesarti sulle spalle e libero da catene non sue.

Scansai all'ultimo un diretto di Tim, impegnato a navigare tra le reminiscenze di occhi lacrimosi e capelli rossi che si allontanavano da me, e compii una giravolta completa, prima di assestargli una violenta Knee Strike. Il ginocchio gli si piantò nello sterno, strappandogli via il respiro.

E non mi guardare così, Rora, per favore. Non mi guardare così, che poi mi rimangio tutto, ti bacio e ti dico che sono innamorato di te fino a stare male. Non piangere, Rora, che poi mi dimentico i motivi per cui non ti posso trattenere con me.

«Porca puttana, Athos!», sbottò papà, nel frattempo Tim si massaggiò il punto dolente, fissandomi a palpebre spalancate. «Si può sapere che hai oggi? Prima c'era mancato poco che ti facessi prendere in faccia come un novellino, e adesso a momenti gli spezzi le costole. Non sei in te. Sei fuori fase, cazzo. Cerca di darti una regolata».

E non mi dire che mi ami, che altrimenti devo smetterla di fare l'egoista e ti devo lasciare andare.

Flessi le dita, così vicine ai miei fianchi rigidi, e lanciai un'occhiataccia a mio padre. Se ne stava lì, incurante di tutto il resto, come se il mondo fosse sempre lo stesso stronzo arrogante e lui impassibile dinnanzi allo sfacelo.

«Non è niente», tentò di minimizzare Tim, risollevando le mani. «Riprendiamo da dove ci siamo interrotti, dài».

Ti avrei seguita, sai?
Se la fantasia fosse continuata ancora a lungo, l'avrei fatto. Ma poi la realtà ha messo le sbarre a Rave e io sono mi sono svegliato.

Sputai fuori il paradenti, intriso di rabbia, odio, una frustrazione cieca che non voleva saperne di placarsi, e presi a morsi gli strappi dei guanti, frenetico nelle viscere di sfilarmeli via. Non riuscivo a starmene lì ad allenarmi come se non fosse accaduto nulla, mentre attorno a me scoppiava il caos.

Athos. Tessitrice di FavoleWhere stories live. Discover now