39. HAILEY

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La mattina seguente, durante tutto il tragitto di ritorno, nessuno dei due proferisce parola.

L'unico rumore a spezzare il silenzio è solo quello della radio, alternato dal cigolio dei tergicristalli. Sembra che il tempo abbia deciso di adeguarsi al nostro umore, e la pioggia risulta più che adatta ad accompagnarci lungo il viaggio.

Nonostante il silenzio però, con la coda dell'occhio becco Taylor a guardare nella mia direzione più di una volta. Occhiate brevi e fugaci, eppure sufficienti a tenermi sulle spine.

Provo a dire qualcosa in diverse occasioni ma finisco sempre per richiudere la bocca e guardare fuori dal finestrino.

Quando imbocchiamo la strada per il suo appartamento mi chiedo se sia il caso di fargli notare che il dormitorio è dalla parte opposta, ma anche questa volta decido di non dire nulla.

Una volta parcheggiato il ticchettio della pioggia sul parabrezza si fa più intenso, e la tensione nell'aria diventa pesante come non mai.

«Mi dispiace» Taylor rompe il voto del silenzio e si gira verso di me, le mani ancora sul volante «Mi dispiace per quello che ho detto» ripete, guardandomi intensamente «Non intendevo ferirti, davvero»

L'espressione sul suo viso è addolorata e, dal suo respiro agitato, capisco che sta dicendo la verità.

«Ero solo arrabbiato» ammette, riprendendo subito «E so che non è una scusa, non voglio giustificarmi» dichiara serio «Io e Chase abbiamo sempre avuto dei battibecchi, ma negli ultimi anni ha affinato particolarmente l'arte della stronzaggine»

La domanda mi brucia sulla punta della lingua, ma decido di andare per gradi.

«Perché è così duro con te?» chiedo, ruotando il busto per guardarlo meglio.

Taylor chiude gli occhi per un momento, come se stesse combattendo contro il desiderio di dirmi qualcosa di cui potrebbe pentirsi.
Quando li riapre sono leggermente lucidi ma, in un battito di ciglia, spazza via quel frammento di emotività prima che possa comprenderla.

«Diciamo solo che abbiamo modi diversi di vedere la vita» dice semplicemente, scuotendo lentamente la testa e fissando un punto oltre il parabrezza.

La sua risposta vuol dire tutto e niente. E mentre lo guardo, ricordo a me stessa che oltre la sua spavalderia, c'è una persona che ne ha passate tante.

Come me, Taylor ha attraversato l'inferno. E come me, ne è uscito vivo.
In un modo o nell'altro.

Mi è stato vicino quando avevo solo bisogno di conforto, e quando ho avuto voglia di parlare mi ha ascoltata senza riserve. Senza insistere per scavare più a fondo.

Quindi, per quanto vorrei davvero fargli altre domande, il minimo che possa fare è ricambiargli il favore.

«D'accordo» dico, inghiottendo la mia curiosità.

Taylor mi osserva con attenzione, sollevando un sopracciglio «Significa che mi perdoni?»

Ricambio lo sguardo «Significa che capisco»

Il silenzio cala di nuovo tra di noi, e per un po' nessuno dice altro. Come se entrambi cercassimo di lasciare all'altro il tempo di elaborare la situazione.

Dopo alcuni minuti è Taylor a riprendere la parola «Hai fame?» Chiede all'improvviso.

Vorrei dire di no. Chiedergli di portarmi al dormitorio.
Ma il mio stomaco si contorce, contrariato alla sola idea. E non solo per la fame.

«Sì» ammetto.

I suoi occhi castani si accendono di speranza mentre un piccolo sorriso si fa strada sul suo volto «Una colazione fatta in casa quanti punti mi farebbe guardagnare?»

PROVA A RESISTERMIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora