Capitolo Ventiquattro - Era la mia punizione

2.2K 168 154
                                    

30_Aprile_2004
Sofia Pov

Non era passata nemmeno una settimana ma non sentivo nulla. Vuoto. Solo vuoto intorno e dentro di me. Vuoto fatto di nulla, vuoto fatto di silenzio. Vuoto fatto di vuoto.

Avevo urlato per tre giorni. Ininterrottamente. Non avevo pianto, avevo solo urlato, contro tutto e tutti.

E niente era cambiato. Niente era tornato indietro. Io ero solo, ancora più consapevole, che la causa di tutto ero io.

Mia madre non aveva fatto altro che ripetermelo, per i giorni seguenti all'incidente e le sue urla e le sue parole angoscianti mi avevano inciso l'anima e quei solchi non si sarebbero mai rimarginati, non senza Gioia.

Mio padre aveva tentato di starmi vicino, ma mia madre non glielo aveva permesso.

"O me o lei! Non puoi consolarla! È colpa sua!" Urlava piangendo.

Mia madre mi odiava, da sempre. Le avevo tolto la libertà e le avevo lasciato il senso di colpa. Tre anni dopo Gioia, mia madre aveva ripreso a lavorare. Aveva riavuto la sua vita da donna in carriera oltre che da madre ma io avevo cambiato le cose.

E poi c'era un motivo in più per cui lei mi detestava: le ricordavo quella scappatella, quel collega di cui si era invaghita tanto da tradire mio padre. Io ero figlia di quel tradimento e me lo aveva confessato in un momento di rabbia facendomi giurare che mai l'avrei raccontato.

Eppure non potevo biasimarla e non potevo accusare mio padre nel momento in cui richiudeva la porta della mia camera ed io tornavo a sprofondare nel mio baratro.

Io avevo voluto guidare nonostante le insistenze di Gioia. Io avevo sterzato finendo contro l'albero, il cui impatto aveva ucciso Gioia. Lei e non me.

Milioni di volte avevo desiderato essere al suo posto.

E le cose andarono così finché non decisi di andarmene e andai a vivere con Tata e Nali. Non dissi nulla ai miei, semplicemente presi le mie cose e una sera lasciai casa loro.

Ma quando disfeci la valigia trovai un biglietto:

'Sofia mia,
non so se ci rivedremo e vorrei scriverti tante cose, perché non posso e non riesco a parlare quando ti guardo.
Prendi a due mani tutto ciò che la vita ti da, anche le cose brutte, perché oltre a mostrarti quanta forza possiedi, ti faranno quella che sei.
La vita ti mostrerà il suo lato migliore e peggiore ma tu saprai affrontarlo sempre, con la forza e la dolcezza che ti contraddistinguono.
E poi, non ti accontentare mai, figlia mia. Mai.
Perché meriti tanto.
E perdonami se puoi. Per non essere al tuo fianco e per abbandonarti in questo momento così tragico per te, per noi.
Spero un giorno di poterti riabbracciare e di poter rivedere il tuo sorriso.
Ti amo, papà'.

Con le lacrime agli occhi, ripiegai il bigliettino e lo chiusi nel cassetto del comodino.

PS DI SEGUITO È RACCONTATA UNA SCENA DI VIOLENZA. A VOI DECIDERE SE LEGGERE.

25_maggio_2005
Sofia Pov

Quel giorno, quella sera tremenda, più delle altre, ho desiderato essere morta con Gioia.

Era quasi un anno che attuavo la mia autodistruzione, ormai gli epiteti con cui venivo chiamata si sprecavano alle mie orecchie, ma non mi importava e non ci facevo più caso; ma qualcos'altro, quella sera, cambiò tutto. Ero ubriaca, come tante sere, ma la macchina non era al solito posto nel parcheggio, era poco più lontano, perché il locale era pieno a causa di una cover band che si esibiva.

Camminai, giunsi alla macchina e le chiavi mi scivolarono dalle mani. Mi piegai per prenderle e non appena mi sollevai mi sentii schiacciare contro la portiera, una mano sulla bocca, qualcosa di freddo e metallico sotto il mento.

"Non muoverti e non urlare o ti taglio la gola" una voce roca e viscida si insinuò nel mio orecchio.

Rimasi di pietra, anche se avessi voluto reagire non avrei potuto, era come se fossi paralizzata.

Era la mia punizione. Era arrivata. Mi meritavo tutto ciò che da lì a poco mi sarebbe accaduto. Mi meritavo tutto quel male per aver ucciso Gioia.

Mi strattonò dietro la fila delle auto, in mezzo alle siepi, mi gettò con forza a terra e feci un tonfo, sbattendo la schiena contro il terreno duro, in un secondo risentii di nuovo il freddo della lama alla gola mentre una mano ruvida saliva sotto la mia maglietta.

Chiusi gli occhi e serrai le labbra come se quella mia chiusura potesse rinchiudermi in un' ampolla e proteggermi da quel vilipendio.

La mano prepotente si fece strada sotto il reggiseno e strinse amaramente ciò che conteneva.

Rabbrividì e raggelai. Ma era solo l'inizio.

"Bona...sei bona...se stai così ferma sarai anche brava...una brava troia...con cui farmi una bella scopata..." la voce ruvida e le parole crudeli mi bloccarono i sensi ed io, ancora, desiderai morire e strinsi gli occhi maggiormente, mentre lacrime amare li bagnavano.

Lacrime che sapevano di dolore, di veemenza e schifo.

Mentre quella mano e quel membro orribile avanzavano su di me, dentro me; ed io mi spegnevo poco alla volta e non riuscivo a sentire più quelle spinte dentro, quel peso addosso.

Restai lì non so quanto, dopo che quella furia devastante che aveva fatto razzia di me, se ne fu andato.

Era giorno quando riaprii gli occhi e mi sollevai nonostante il dolore lancinante.
Raccattai la borsa, intonsa, al mio fianco e come un' automa guidai fino a casa.

Varcai la soglia di casa e mi bloccai nell'ingresso.

26_maggio_2005
Nali Pov

Era in piedi nell'ingresso, lo sguardo spento, perso nel vuoto. Le andai vicino e la guardai, le parlai. Non mi guardò, non rispose.

Sembrava impossessata da qualcosa, non era la stessa di quando era uscita. Continuai ad osservarla e notai quei particolari: i capelli scompigliati, il trucco colato, i vestiti sporchi e stropicciati, fuori posto; le calze strappate, gli slip che si intravedevano.

Un gelo mi invase il cuore. Chiamai urlando Tata e aiutandola a sorreggersi a noi la conducemmo in bagno. La spogliammo e la calammo nella vasca di acqua calda e profumata.

Lei non fece un solo movimento, un solo cenno della testa o un mormorio.

Era evidente che il suo corpo era stato violato e la sua anima era stata lacerata irrimediabilmente.

La lavammo con delicatezza, mentre lei continuava a restare immobile e con lo sguardo fisso nel vuoto. Tata mi guardava con gli occhi imploranti e pronti a scoppiare, ed io la redarguivo con lo sguardo. Non potevamo cedere, dovevamo essere la sua forza perché al momento lei l'aveva completamente persa.

La asciugammo, la vestimmo e la stendemmo sul suo letto. Io e Tata decidemmo di comune accordo di non farle domande, di non parlare, le saremmo state accanto e l'indomani avremmo pensato a cosa fare. Ci stendemmo di fianco a lei e la stringemmo ed accarezzammo finché non diede pace ai suoi occhi sbarrati e al suo corpo sfinito.

Passò un mese di silenzio, chiusa in casa e in se stessa, avvinghiata al suo dolore.
Non poteva continuare così, avrebbe preso una strada da cui non sarebbe più potuta tornare indietro. Fu allora che chiamai una mia amica psicologa e la invitai a casa per poterci dare una mano.

Un mese dopo, presi ad accompagnarla due volte alla settimana nel suo studio. Un anno dopo, una volta alla settimana. Finché anche quell'anno passò e Sofia tornò all'università e ad uscire ma solo accompagnata da noi.

Dovette passare un altro anno affinché riuscisse a vincere la paura di uscire da sola e tornare ad essere quella che era prima. Nascondendo quell'orrenda cicatrice in fondo al suo io.

Amami come Mai © #Wattys 2020Tempat cerita menjadi hidup. Temukan sekarang