Capitolo 9

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Tutto uguale.
Come ogni sera.
Gli sperduti che ballano e cantano attorno a quel maledettissimo, inutile fuoco.
Peter Pan che li osserva in silenzio.
Io che mi appoggio al tronco di un albero, il più lontana possibile da loro.

Ormai è da giorni, forse settimane che va tutto nello stesso modo. Mi sembra di rivivere lo stesso, unico giorno ancora e ancora. E non ne posso più.

Mi alzo e mi dirigo verso la spiaggia, avendo ormai imparato la strada per le numerose volte in cui ci sono stata.
Ho bisogno di silenzio, pace, solo per qualche minuto, o credo che potrei scoppiare da un momento all'altro.

La sabbia sotto le mani mi stuzzica la pelle, il leggero vento serale mi accarezza il viso, donandomi un po' di piacere. Le onde del mare mi cullano, e un'improvvisa melodia risuona nelle mie orecchie come la cosa più bella e dolce che io abbia mai sentito.
Mi alzo, cercando di scorgere la fonte di quel suono. Mi sento come incantata, le mie gambe si muovono da sole verso la figura poco più distante da me. Come fa un flauto così malridotto a produrre un suono così stregante?
Mi siedo a gambe incrociate davanti a Pan, e continuo ad ascoltare l'incantevole melodia che produce.

Una strana luce verde mi trapassa gli occhi, stordendomi per un secondo.

La mia mente viene svuotata, tutto quello che percepisco è il suono del flauto.

Ha uno sguardo così profondo...quegli occhi neri gli donano un'aurea inquietante, ma attraente. I suoi capelli risplendono anche se travolti dal buio della notte. Le sue mani si muovono decise sullo strumento, con estrema leggerezza. E le sue labbra...non ci avevo mai pensato. Come sarebbe baciarle?

In un istante mi ritrovo faccia a faccia con lui, con solo pochi centimetri che ci separano. È come se non fossi padrona del mio corpo. Le braccia si muovono da sole e le mani si posano sulle sue ginocchia. Mi guarda negli occhi, per niente sorpreso da questo mio gesto, per poi annullare completamente le distanze tra di noi.

Le sue mani sul mio viso mi premono con forza verso le sue labbra in un bacio aggressivo, per niente delicato.
La mia mente è come offuscata, riesco solo a percepire il bisogno di averlo ancora di più vicino a me. Sono estasiata da quel momento, dal suo tocco che si sposta al mio corpo, sui miei fianchi, avvicinandomi a lui.
In questo momento, questo è tutto quello che voglio.

Ed è proprio questo pensiero a farmi allontanare.
Spingo il suo petto con le mani, allontanandolo bruscamente da me, sentendo una sensazione di vuoto che mi invade.
Scuoto la testa più volte, cercando di tornare in me. Sbatto le palpebre velocemente, e piano piano inizio a riprendere lucidità, come se mi stessi risvegliando da uno stato di trans.

«Cosa mi hai fatto?» sussurro impercettibilmente, continuando a guardare un punto fisso davanti a me, ancora turbata da quello che è appena successo.

Pan si risiede sbuffando, appoggiando le mani a terra, senza smettere di osservarmi.

«Cosa c'è che non va in te?» dice più a se stesso, alzando leggermente gli occhi al cielo.

«In me? Sarei io ad avere qualcosa che non va?» proferisco arrabbiata, ancora con un po' di fiatone.

«Calma, tigre. Sembra che ti stia per scoppiare la testa da un momento all'altro» ridacchia leggermente, guardandomi divertito.

Sento la rabbia iniziare ad invadere il mio corpo, ma stavolta non cerco di fermarla.
I polpastrelli iniziano a pizzicare, la vista diventa offuscata, sento una scarica di adrenalina percorrermi, il respiro diventa affannoso. Stringo le mani in due pugni, concentrandomi sul pavimento, per cercare di riprendere la consapevolezza delle mie emozioni.
Non volgo mai lo sguardo verso di lui, sapendo che se lo facessi sicuramente perderei il controllo.
Provo a concentrarmi sul rumore delle onde che si infrangono sulla riva, del vento che mi accarezza la pelle. Seguo il battito del mio cuore, accompagnandolo con i miei respiri che diventano sempre più regolari. Lascio le mani morbide, sentendo l'adrenalina abbandonarmi e lasciare spazio alla stanchezza.

Mi giro verso Pan, che continua a guardarmi come se fossi matta. Un ginocchio piegato e il gomito poggiato su di esso, e quel costante sguardo di scherno sul volto.

Mi giro con l'intenzione di andarmene e lasciare le mie emozioni negative su questa spiaggia. I miei piedi camminano veloci, quasi a voler scappare da quel luogo.
Continuando ad allontanarmi chiudo gli occhi, non sapendo dove andare, ma sperando con tutto il cuore di trovarmi al sicuro.
E così succede.
Apro gli occhi lentamente, cercando di capire se me lo sto immaginando.
Sono davvero nella mia tenda. Allora era tutto un sogno? Me lo sono immaginato?

La stanza è piccolissima, dettaglio che non mi infastidisce. Non ho mai avuto bisogno di spazi smisurati. Non c'è molto, solo una sedia, un tavolino, e un letto con...Pan?

«Ma mi spieghi cosa cazzo vuoi da me?»

Se ne sta comodamente disteso sul letto a guardare il soffitto, come se io non fossi presente.
Incrocio le braccia al petto, attendendo una spiegazione.
«Sei appena comparsa magicamente nella tua tenda» mi ricorda, senza degnarmi di uno sguardo.
Allora non me lo sono immaginato.

Non rispondo, lasciandomi andare sulla sedia e appoggiando il gomito sul tavolino, per poi reggermi la testa con la mano.

Passano alcuni minuti e nessuno dei due accenna un movimento.
Mi sento esausta.
Non riesco a pensare a niente, sento il vuoto più totale che mi invade la mente. Gli occhi diventano sempre più pesanti, portandomi a socchiudere le palpebre.

«Da dove proviene questa tua rabbia?»
Apro di scatto gli occhi, sobbalzando alle sue parole.

Mi giro verso di lui e noto che continua a guardare il soffitto.

«Non lo so» ammetto, poggiando la schiena sulla sedia.

«Beh, anche io ero come te in passato. "Arrabbiato con il mondo"»mima con le dita quest'ultima frase.

«Non sono arrabbiata con il mondo» affermo, neutralmente.

Lui sembra ignorarmi.
«Dopo ho solo imparato a conviverci...a modo mio» dice guardandosi intorno.
L'isola.

«Non sei sempre stato così?»
Vorrei evitare di conversare con il nemico, ma è più forte di me. La curiosità mi mangia viva.

«Oh, no. Molti anni fa ero un semplice ragazzino, come te»

Fatico ad immaginarlo nel mondo comune, a casa con una famiglia, a scuola, con gli amici. Non sembra una cosa da lui.

«E come hai fatto ad arrivare qui?»

<Mi ci ha portato la mia ombra>risponde come se fosse la cosa più ovvia del mondo, con un piccolo sorrisetto che gli sfiora il volto.

«La tua ombra?» alzo un sopracciglio.

«Già...credo che abbia provato così tanta pietà per me che decise di staccarsi e vivere una vita tutta sua» conclude la frase con una risata malinconica.

In questo momento sembra un ragazzo normale che si confida con un'amica, e faccio quasi fatica a credere che possa essere uno spietato dittatore.

È così dannatamente bravo a fingere.

«Prima non ero come sono adesso. Il "malvagio re dell'isola che non c'è" lo sono diventato col tempo. Quest'isola ti divora, Wendy. È una maledizione, la mia maledizione, eppure non riesco a separarmene»

Lascio trasparire un velo di tristezza sul mio volto, mentre lui rimane impassibile. Il pensiero che la stessa cosa potrebbe essere capitata a me, mi fa rabbrividire. Mi immagino al suo posto, pronto a ferire ed uccidere chiunque mi si ponga davanti, spietata e bramosa di potere.

«Non sei costretto a fare quello che fai»

«Il mio cuore mi costringe»
Fa una lunga pausa, nella quale chiude gli occhi e prende dei respiri profondi.

Inizio a credere che si sia addormentato, quando ricomincia a parlare.

«L'isola l'ha annebbiato, e lui ha annebbiato me»

Run, Wendy || COMPLETAWhere stories live. Discover now