Something to die for

443 43 141
                                    

Prefazione:

Something to die for - Qualcosa per cui morire

Chiavi. Adesso ne era certo. Lì chino su quella scrivania arrugginita tutto gli era parso d'un tratto chiaro, scontato. Quei piccoli poliedri convessi che stringeva nel pugno erano chiavi, quattro chiavi per quattro serrature. Non aveva ancora idea di cosa potessero aprire, ma era pronto a scommettere che non si trattava di un tipo di porta convenzionale. Quella consapevolezza fu subito affiancata dalla sconcertante certezza che probabilmente sarebbe stato disposto a vendere la sua anima per scoprirlo e, per un attimo, fu intimorito da quel pensiero.

Esaminò ancora una volta uno ad uno quei cimeli – che avevano rispettivamente la forma di un tetraedo, un esaedro, un icosaedro e un ottaedro- e fece scorrere leggero il polpastrello lungo gli intarsi dorati che ricoprivano le molteplici facciate. Erano semplici, nella loro bellezza, forgiati in una maniera così sublime da risultargli difficile credere che potessero risalire ad un epoca così antecedente al pre-Brillamento. Ma d'altronde la lega metallica di cui erano formati aveva una composizione unica e sconosciuta. Non aveva mai visto niente di simile, neanche tra i più rari ritrovamenti nelle vecchie città del Deserto di Cenere.

Erano mesi ormai che studiava quegli oggetti, eppure, quell'intrico di decorazioni che inizialmente gli erano sembrate solo puramente ornamentali sembrava assumere nuovi significati ogni volta che vi ci faceva posare lo sguardo. E, dove prima vedeva solo linee curve ed intricate che si intrecciavano tra di loro, ora aveva cominciato ad individuare uno schema, una simbologia che era diversa per ognuno dei quattro pezzi. Diversa, eppure in qualche modo complementare.

Ciascuno la continuazione dell'altro ed il suo completamento, come se in origine fossero parte di un'unica composizione.

Quattro che sono uno.

Quel pensiero si materializzò nella sua testa all'improvviso, come se fosse stato messo lì da qualcun altro.
Era stato così anche per l'intuizione delle chiavi.
A volte aveva l'impressione che i cimeli gli sussurrassero, che volessero raccontarsi, farsi scoprire.
I piccoli solidi regolari erano cavi, lo si percepiva dal peso esiguo e dall'oscurità che si celava dietro la superficie traslucida che ospitava i fitti intarsi, eppure, se scrutava abbastanza a lungo all'interno cominciava ad intravedere un tenue baluginio, una pulsazione quasi impercettibile dalla quale scaturivano vibrazioni che scuotevano la sua mente risucchiandolo, e lui, incapace di ritrarsi o anche solo di battere le palpebre, si sentiva improvvisamente vicino a una verità assoluta, alla consapevolezza di qualcosa di grande, di così immenso da andare oltre le sue facoltà, qualcosa che al tempo stesso generava in lui eccitazione ed assoluto annichilimento.
Era uno scienziato e sapeva quanto fosse un concetto assurdo, ma la verità era che il giorno in cui era entrato nella faglia di Morin era stato scaraventato in una faccenda molto più grande di quanto avesse potuto immaginare e il turbinio di eventi che era scaturito da quel momento, che era tanto assurdo ed incredibile quanto impossibile da negare, sembrava poterlo inghiottire tra le sue spire da un giorno all'altro.
Eppure, nonostante quel peso che aveva nel petto, piccole rughe si formarono agli angoli della bocca quando sul viso dell'uomo si dipinse un sorriso di soddisfazione. Aveva infine scoperto la verità e neanche la consapevolezza di quanto questa potesse essere pericolosa era riuscita a smorzare la sensazione di appagamento che da sempre gli regalava dispiegare le volute di un mistero.
Segnò gli ultimi appunti sul suo diario chiudendo con cautela la copertina di pelle verde sui fogli stropicciati, provati da quei mesi di vagabondaggio e fuga disperata. Nel chiudere il libro fece alzare una pigra nuvoletta di polvere che vorticò nel raggio di luce della piccola torcia ad urakite che, sola, illuminava la stanza malandata. Seguì con sguardo stanco il pulviscolo salire verso l'alto e nello stesso momento sentì una sensazione di disagio salirgli lungo la schiena e congelarlo sul posto, mentre le orecchie si tesero ad indagare il silenzio assoluto, sebbene non fosse stato un rumore ad allertarlo ma solo un vago presentimento.
Attese qualche istante ma non riuscì a sentire nient'altro che il suo cuore che aveva accelerato qualche battito. Si costrinse a rilassare le spalle con un sospiro, convincendosi che fosse solo la tensione di quel periodo che cominciava a farsi sentire e prese i cimeli per infilarli in un sacchetto di pelle nera.
Fu proprio in quel momento che udì i vetri del primo piano rompersi con un fracasso inconfondibile.
Lo studioso infilò il fagotto e il diario nella tasca interna della giacca e, prima di uscire dalla stanza, aprì un cassetto della scrivania estraendone una pistola.
Non appena fu fuori, il buio l'avvolse e insieme un silenzio irreale che per qualche secondo gli fece dubitare di aver immaginato tutto.
Riuscì a trovare l'imboccatura delle scale e cominciò a scendere con cautela, misurando ogni passo ma, benché cercasse di non fare alcun rumore, il legno antico di quella casa abbandonata scricchiolava sonoramente ogni qual volta il suo piede faceva pressione, rendendogli il fiato corto e i muscoli tesi.
L'avevano raggiunto anche lì, dunque.
Tutte le precauzioni che aveva preso, gli stratagemmi a cui aveva pensato, la vita a cui si era costretto in quel periodo erano stati inutili. Sembrava non ci fosse alcun posto in cui potersi nascondere da quegli uomini degenerati.
Strinse la presa sull'impugnatura dell'arma; quelle scale non gli erano mai sembrate più lunghe e rumorose tanto che si concesse un sospiro di sollievo quando scese anche l'ultimo scalino ma, non fece in tempo a sentire i polmoni sgonfiarsi, che un piatto dischetto di metallo scivolò dal buio dinnanzi ai suoi piedi.
Lo fissò per un istante, colto di sorpresa, poi tre luci si accesero sui bordi lampeggiando ad intermittenza. In quell'istante capì, scavalcò l'aggeggio e svoltò a destra nella cucina mentre la stanza dietro di sé esplodeva e lui veniva sbalzato contro il muro dall'onda d'urto, perdendo la presa sulla pistola.
Si rialzò a fatica con la schiena dolorante e arrancò verso la porta di servizio. Probabilmente tutto il perimetro della casa era già circondato e lo avrebbero preso senza neanche troppi sforzi, ma doveva provare.
Era custode di un segreto troppo grande da poter lasciare che cadesse nelle mani sbagliate e quelle dei suoi inseguitori erano di sicuro le peggiori.
Uscì dalla porta e quasi gli scappò una risata di gioia nel costatare che, almeno apparentemente, su quel lato della casa non c'era nessuno. Non riuscì a pensare ad un luogo sicuro nei paraggi in cui si sarebbe potuto nascondere, doveva raggiungere il garage. Così si acquattò contro il muro e imprecò a denti stretti quando sporse il viso oltre la sua spalla per controllare se anche la facciata principale della casa fosse libera; quattro soldati, infatti, controllavano l'ingresso della casa armati di fucile, altri due venivano verso di lui per perlustrare il perimetro dell'edificio, mentre era sicuro che gli altri fossero già dentro per trovare gli oggetti causa di tanto scompiglio. Si ritrasse tenendo la testa poggiata contro il muro nel tentativo di farsi venire un'idea, aveva ancora qualche secondo poi i soldati avrebbero svoltato l'angolo e l'avrebbero visto. Quei pochi istanti erano bastati alla sua mente scaltra per elaborare il principio di un piano, ma era già troppo tardi. Una decina di metri alla sua destra altri due soldati, di cui ignorava l'esistenza, erano sbucati da dietro il muro e vedendolo avevano lanciato un urlo per avvisare i compagni.
Smise di ragionare e fu il suo corpo a reagire per lui. Con uno scattò fulmineo cominciò a correre dritto di fronte a sé per accorciare la distanza che lo separava dalla Foresta di Ossa adiacente alla casa. Non c'era stato il tempo di constatare quanto fosse stata avventata la mossa di mettersi a correre in uno spazio aperto senza ostacoli e nel quale era un bersaglio facile per qualunque uomo sapesse maneggiare una pistola. Anche perché, per quanto folle, era l'unica alternativa rimasta. Contro ogni sua più florida aspettativa, dei colpi che furono sparati solo uno andò a segno, conficcandosi nel tricipite destro un istante prima che il ragazzo venisse inghiottito dalla moltitudine di rami essiccati. Rallentò quando sentì il dolore lancinante all'arto ferito e d'istinto portò la mano sinistra allo squarcio sulla pelle che già perdeva sangue in abbondanza. Forse sarebbe morto lì, in quel cimitero di foresta, e il suo scheletro non sarebbe diventato altro che l'ennesimo cimelio macabro che adornava quel luogo, ma non poteva permettere che quel pensiero lo distraesse dalla fuga. Riprese a correre a perdifiato seguendo il corso del torrente impetuoso mentre cominciava a sentire il clangore delle cascate di Saimoen distanti solo poche centinaia di metri. I soldati della confraternita gli correvano dietro arrancando, mentre lui sfrecciava veloce incurante dei rami bassi che gli graffiavano il viso. Era riuscito a mantenere una certa distanza, ma seminarli mentre era costretto a zigzagare per non rendersi facile bersaglio dei proiettili, sarebbe stato impossibile.
Non sapeva dove stesse andando, gli importava solo di scappare il più lontano possibile e fece forza sui suoi quadricipiti con la stessa foga di chi credeva che se avesse corso abbastanza veloce forse sarebbe riuscito a depistare non solo gli uomini che aveva alle calcagna, ma anche il destino che lo perseguitava.
Sentiva il sacchetto con i piccoli oggetti poliedrici nella sua tasca farsi sempre più pesante e ricordargli che non aveva scelta, che il futuro del mondo era di gran lunga più importante della sua felicità, dei suoi desideri e delle sue volontà. Eppure pensare che la vita di tante persone potesse dipendere in qualche modo da lui, da quanto veloce sarebbe riuscito a correre, da quanto lontano sarebbe riuscito a portare i piccoli gioielli, era una prospettiva così astratta che gli era difficile autoconvincersi.
La tua curiosità è l'unica cosa a cui sei devoto, non fingere di farlo per qualche motivo nobile. Tu non hai uno scopo, non hai un'ideale. Sei solo un egoista, Caim.
Le parole di sua sorella gli rimbombarono nella testa scoperchiando una vecchia ferita.
Era quella la questione, dunque.
Avere uno scopo, combattere per una causa.
Prima di quel momento non aveva mai capito cosa volesse dire, aveva vissuto tutta la sua vita esclusivamente nel tentativo di appagare quella pulsione alla ricerca, alla scoperta. Vedeva Lisa combattere e struggersi per questioni che sembravano toccarlo meno di quanto avrebbero dovuto, come uno spettatore che assiste ad un film non particolarmente avvincente.
E invece, in quel momento, mentre scappava in una foresta di ossa da una branco di psicopatici con in tasca dei cimeli che forse avrebbero potuto decidere le sorti del mondo, cominciava a capire. Dopo tutti quegli anni in cui non aveva trovato uno scopo, qualcosa che motivasse le sue azioni, infine era stata la causa a trovare lui, ed era stata proprio la sua curiosità a metterlo in quella situazione.
Capiva la necessità di non arrendersi, di continuare a far muovere veloci le gambe, di frapporsi al male che minacciava il suo mondo e tutto ciò che amava.
Ma la domanda era una:
Se la causa lo avesse richiesto, sarebbe riuscito a sacrificare se stesso?
Sbucò infine fuori dai rami decrepiti e scoloriti della foresta ritrovandosi davanti uno spiazzo di pietra che terminava con l'enorme baratro della cascata, mentre alla sua destra l'acqua del torrente illuminata dalla luna precipitava come argento liquido verso il lago sottostante diversi metri d'altezza.
Solo un piccolo spicchio del Guardiano si intravedeva su quel manto oscuro, quasi come se il pianeta stesse facendo capolinea da dietro una tenda di velluto nero per scrutare curioso la scena. Raggiunse il limite di pietra guardando sotto di sé l'acqua gorgogliante e si rigirò per tornare indietro ma, in quello stesso momento, anche i soldati uscirono dalla vegetazione, trafelati, e gli puntarono contro le armi. Era in trappola.
Sentiva il sangue pompare forte nelle vene rimbombandogli nelle orecchie, il sudore che gli imperlava la fronte che iniziava ad asciugarsi con la leggera brezza notturna.
Indietreggiò appena ma dovette subito fermarsi sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, guardò nuovamente giù nel dirupo e deglutì, lo stomaco gli si contorceva in preda alle vertigini. Si costrinse a riportare lo sguardo sui suoi inseguitori e un'espressione di puro odio gli deturpò il bel viso quando vide sbucare dalle tenebre della vegetazione un uomo, alto e snello, il capo pelato risplendeva alla luce della luna. Avanzò verso di lui senza fretta e si fermò solo quando fu a pochi metri di distanza.
«Dott. Morrigan» esclamò il nuovo arrivato in tono freddo, un ghigno feroce in volto.
«Caim» specificò questa volta con voce più pacata inclinando il viso in avanti per inchiodarlo con lo sguardo.
«Solomon.» Lui mormorò una risposta con tono diffidente e si portò d'istinto la mano al petto tastando il fagotto di pelle infilato nella tasca della giacca, quasi avesse paura che l'uomo potesse sottrarglielo con lo sguardo.
Al Sacerdote non sfuggì quella mossa eloquente. «Mi sono sempre domandato come sia possibile che uomini intelligenti come te possano fare delle scelte così stupide. Sappiamo entrambi che quei ciondoli appartengono ad un futuro che non può essere fermato. Tutto questo teatrino, questo tuo patetico tentativo di fuga, non è altro che un piccolo ed insignificante rallentamento sulla tabella di marcia» fece una breve pausa guardando per terra.
«Dammeli e facciamola finita, Caim. Alla fine li avrò comunque, in un modo o nell'altro. A quanto pare, nonostante mi risultasse incomprensibile all'inizio, il tuo ruolo in questa vicenda era rispondere alla chiamata dei Primi e devo dire che ancora una volta la Risonanza ha agito in maniera impeccabile. Ma ora è tempo che tu ti faccia da parte e torni alla tua vita priva di valore.»
Per un attimo sembrò davvero assumere l'espressione di qualcuno che cercava di dare un consiglio ad un caro amico ma, quando vide che lui rimaneva irremovibile, rise in modo agghiacciante e quella maschera si dissolse come neve.
«Avanti, dott. Morrigan, i nostri interessi non entrano in conflitto in nessun modo. A lei non importa nulla di questa faccenda, vorrebbe solo tornare nel suo laboratorio. E sarà così. Io la conosco e l'ho visto già arrivare, il suo futuro. Lei mi consegnerà quel sacchetto e sarà di nuovo libero di tornare alla normalità. Così come deve essere.»
Caim si irrigidì non spiegandosi come facesse quell'uomo a conoscere così a fondo i suoi dubbi. Abbassò lo sguardo e infilò una mano all'interno della giacca estraendone il sacchettino nero e gli occhi dell'uomo pelato si illuminarono nella notte come quelli di un felino.
Sentì il velluto morbido al contatto con la pelle mentre si rigirava il contenitore tra le mani, le piccole protuberanze all'interno che sfregavano sui suoi polpastrelli.
«Forse un giorno otterrà davvero quello vuole, Solomon.»
Sorrise amaramente ancora con lo sguardo basso mentre pensava a tutta quella fatica inutile.
«Non ho la presunzione di credere che un uomo come me possa in qualche modo incidere sull'inevitabile sorte che ci attende» mormorò con un filo di voce.
Solomon annuì arcuando le sopracciglia come un prete che ascolta comprensivo la confessione di un peccatore.
Caim si schiarì la voce. «Ma su una cosa si sbaglia» continuò.
Questa volta gli occhi del diacono si assottigliarono, prima sospettosi, poi pieni di collera, quando incontrarono quelli del giovane che non stavano più guardando mesti la nuda roccia, ma che si erano alzati, carichi di una nuova luce che probabilmente nessuno prima aveva mai visto risplendere in quelle iridi grigie.
«Lei non mi conosce affatto» pronunciò quella frase con semplicità e con un leggero, ma sfrontato, sorrisetto sulle labbra mentre portava la gamba sinistra all'indietro.
Solomon colse il movimento e un'espressione di autentico stupore si dipinse su quel volto smunto mentre spalancava gli occhi.
Dopotutto, quello non doveva averlo visto arrivare.
«No!» l'urlo riecheggiò nella vallata al di sopra dello scrosciare dell'acqua, ma Caim già precipitava negli abissi della cascata, il sacchetto ancora stretto tra le dita insanguinate, gli occhi chiusi e un'espressione beata sul volto mentre scivolava verso l'eterno oblio.
Sì, ce l'aveva fatta.

Rizomata - RisonanzaWhere stories live. Discover now