8. Vicini

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Università, casa, uscite serali con Tim e Marcus. Così avevo intenzione di far tornare la mia vita, e a me andava più che bene. Gli ultimi due giorni erano stati i più normali dell'intera settimana. Niente incubi, niente pensieri. Ero stufo di pensare. Distrarmi mi era sembrata l'opzione migliore.

Era stato facile durante le lezioni, i laboratori e mentre mi prendevo cura delle piante – appena ne avessi avuta l'occasione, avrei trasformato il mio balcone in una piccola serra – facile lo era stato anche con quei due deficienti dei miei amici. Un po' meno quando tornavo a casa e mi coglieva il silenzio e la solitudine, ma avevo cercato di sopprimerli grazie alla playstation.

Quel sabato pomeriggio, però, la vita mi aveva suggerito che non sarei potuto scappare per sempre dai pensieri.

Stavo recuperando le buste della spesa nel portabagagli, quando un tonfo e una debole imprecazione mi fecero scattare con lo sguardo alla mia sinistra. E lo vidi. Il ragazzo. Con uno scatolone riverso ai suoi piedi.

Cosa voglio fare con lui?

Non lo sapevo ancora, neanche sapevo perché dovessi farmi condizionare da lui. Non aveva alcun senso. Allora decisi che avrei dovuto trovarlo io, il senso, e per farlo c'era solo un modo.

Mollai le buste nel bagagliaio, mi assicurai che non ci fosse nessuno per strada – per qualche assurdo motivo – e raggiunsi il ragazzo inginocchiato nell'intento di raccogliere lo scatolone.

«Hai bisogno di una mano?»

Quando il ragazzo alzò gli occhi su di me, dovetti trattenere l'insensata voglia di scappare. Terra. Ecco qual era il loro colore. Terra bagnata in attesa che nascesse un fiore.

Esitò, forse riconoscendomi come quello che si era impicciato dei suoi affari di coppia, oppure come quello che lo aveva guardato... in che modo lo avevo guardato? Terrorizzato, schifato? Era normale la sua titubanza nei miei confronti.

Non aspettai una risposta, mi abbassai e sollevai per lui lo scatolone. «Cristo, ma che ci hai messo dentro? Pietre?»

«Libri.»

Arcuai un sopracciglio. La schiena mi pregava di non spezzarsi e non avevo ancora compiuto mezzo passo.

Di nuovo lui tentennò e io ne approfittai per cercare ulteriori differenze tra il suo volto e quello di Rory. Aveva il mento spigoloso, i capelli scuri e lisci, tagliati in una scodella cortissima che arrivava a malapena alle orecchie, con tanto di frangia sbarazzina. Il trucco gli accentuava gli zigomi e li rendeva perennemente imbarazzati, dell'ombretto beige sfumato faceva da terra asciutta sopra le sue iridi.

Non era Rory.

Lo sapevo, era ovvio non potesse essere lui o minimamente avvicinarglisi, ma adesso ne ero più convinto.

«Dove devo portarli?» chiesi deglutendo l'ansia.

«Non c'è bisogno...»

«Non mi costa nulla» insistetti. «Le tue braccia e la tua schiena, invece, mi ringrazieranno.» Mi spuntò un lieve ghigno, anche se il peso non era indifferente e le mie, di schiena e braccia, mi avrebbero tirato scongiuri da lì ai prossimi due giorni.

Il ragazzo fece una timida risata, fu difficile persino sentirla. Anche quella non aveva nulla a che fare con la risata solare di Rory, mai contenuta ma sempre esplosiva. L'unica cosa che sembrava avessero in comune, dopotutto, era il corpo mingherlino e poco incline agli sforzi.

«Quindi, dove devo portarli?»

Mi scrutò per una manciata di secondi. Cavolo, se mi fossi messo la matita o lo smalto, forse gli avrei ispirato più simpatia e fiducia, trovando in me qualcosa che ci accumunava. Non gli sarei sembrato un omofobo che l'altra sera lo aveva fissato, a questo punto, come se fosse un pagliaccio. Oppure non gli sarei sembrato uno sfacciato. Anche se, a dire il vero, sfacciato dovevo sembrargli comunque, dato come mi fossi impossessato del suo scatolone senza possibilità di replica.

Come Toccare un FioreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora