45. Ritrovarsi

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Quando rientrai a casa – non mia, ma di mia madre – c'era odore di pulito. Davvero tanto pulito, non ricordavo un pulito così forte in tutti i miei ventidue anni.

O i prodotti per la pulizia avevano allagato l'appartamento... o Jen si era data decisamente da fare. Se il suo modo per sdebitarsi con mia madre era quello di rassettare casa e cucinare, beh, gliel'avrei lasciato fare più che volentieri.

Negli ultimi tre giorni le cose sembravano essere migliorate. Le botte sul suo viso stavano cominciando ad andare via e Jen aveva ripreso un po' di vigore. Non ero sicuro se si trattasse di una facciata mentre dentro si frantumava in silenzio a poco a poco, eppure a me parevano reali i sorrisi, le videochiamate la mattina per darmi il buongiorno, i baci quando tornavo dall'università e la serenità persino davanti a mia madre. Non era capace di mentire così bene; la conoscevo abbastanza da esserne più che certo.

Se si stesse godendo il momento, consapevole che finché non avesse preso una decisione era al sicuro... mi stava bene pure quello. Meritava un po' di pace, di non dover pensare ma sentire e basta. Sentire l'affetto di una famiglia, il mio, dei suoi amici. Perché, che Jen ci credesse o no, aveva degli amici. La dimostrazione era stata quando le sue colleghe l'avevano bombardata di messaggi, mercoledì. Non aveva detto loro la verità, aveva soltanto ribadito che era una questione troppo delicata per lei da affrontare in questo momento, ma aveva promesso che sarebbe tornata presto con tutte le risposte alle loro domande. E sì, non solo la sua responsabile era una santa, ma anche le sue colleghe, e dovevano volerle davvero bene, perché aspettavano tutte che tornasse. Quando Jen me lo aveva raccontato, si era messa a piangere dal sollievo. Ci era mancato poco che piangessi con lei pregandola finalmente di compiere quel maledetto passo in avanti.

Lasciai le scarpe vicino all'ingresso, e tracolla e giubbotto sullo schienale del divano. «Ehilà, c'è nessuno?»

Sentii zampettare dal fondo del corridoio. Pochi secondi dopo Jen comparve radiosa, con il caschetto voluminoso, la frangia stirata, un leggero strato di trucco sulle guance e sulle palpebre e un altro dei suoi maglioncini lunghi primaverili che mettevano in mostra tutte le sue curve più che guadagnate. Niente calze; le gambe erano nude e a me non dispiaceva affatto quella visione di cosce e polpacci e ginocchia lisce pronte per essere accarezzate e morse.

«Bentornato!» esclamò pimpante. Mi diede un bacio con schiocco rumoroso, ma io la intrappolai tra le braccia per reclamare qualcosa di più. Le lingue già si cercavano, le mani strattonavano. La sua pelle di zucchero filato mi faceva girare la testa.

La afferrai da sotto il sedere e la sollevai sullo schienale del divano. Jen lanciò un urletto, rischiando di capitombolare all'indietro. Per fortuna si aggrappò con entrambe le gambe alla mia schiena e riprendemmo a baciarci con la stessa intensità che lei doveva aver usato per lavare i pavimenti.

«Com'è andata oggi?» Strofinò il naso sulla mia guancia.

«C'era il laboratorio con le matricole, ho fatto da assistente.»

«Mmh... il mio professor Evans.»

Ridacchiai. «Non avevo capito quanta soddisfazione mi desse finché il professor Turner non mi ha proposto questa alternativa per il mio futuro.»

«È una cosa bella.» Mi scoccò un sorriso lievemente malinconico. «Capirsi e trovarsi.»

«Anche tu ti capirai e troverai.» Poggiai la fronte sulla sua. «Ne sono certo.»

La sua espressione si ammorbidì e le sue labbra si protesero verso le mie.

Me le leccai una volta terminato l'ennesimo, lunghissimo bacio. «Tu invece ti sei data alla pazza gioia con le pulizie di primavera?»

Come Toccare un FioreWhere stories live. Discover now