31. Provocazioni

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Mai una sigaretta mi aveva fatto così vomitare. Malgrado ciò, dovevo fare finta che fosse tutto a posto, che non fosse un problema condividere lo stesso spazio, la stessa aria, con Austin, sul balcone di casa sua.

La verità era che volevo buttarlo di sotto.

Nella migliore delle ipotesi, sarebbe rimasto paralizzato a vita. Migliore dal suo punto di vista. Per me poteva anche sparire per sempre.

Non lo spinsi soltanto perché Jen era dall'altra parte della portafinestra, seduta con le gambe raccolte sul divano, e ci guardava fumare come due vecchi amici.

Amici un paio di palle.

E perché, a essere onesto, non ne avevo il coraggio. Non ero un assassino né un grande fan della morte. Anche se immaginare un Austin agonizzante dal dolore non era poi così male. Sempre meglio che pensare a lui che mi scopava. Non ero neanche il migliore dei bugiardi. Era difficile nascondere quando qualcuno mi stava sui coglioni, di solito la mia faccia e la mia lingua lo rendevano più che palese e se ne sbattevano della sensibilità altrui.

Quella sera però avevo dovuto dissimulare, per il bene di Jen e del mio.

Avevo girato attorno alle domande di Austin «Che ti prende? Sei scazzato? È successo qualcosa?» dando la colpa all'università. «La tesi, il tirocinio, inizio ad accusare la stanchezza.»

«Manca poco, dai» aveva detto lui.

«Per fortuna» avevo risposto io con una scrollata di spalle. Non avevo accennato al fatto che volessi diventare professore, Austin non aveva il diritto di sapere della mia vita.

«Ci fumiamo una sigaretta?»

No.

«Non potevi fare proposta migliore.»

E allora lo avevo seguito sul balcone, rendendomi conto solo dopo che senza Jen accanto recitare era più ostico. Perciò avevo scelto la via del silenzio, del fumo che entrava dalla bocca e usciva dal naso, del freddo di fine gennaio che mi manteneva sveglio.

Austin aveva accettato passivamente il mio umore, perché restò in silenzio insieme a me. Mi diede fastidio condividere persino quello.

Quando la vaniglia del profumo di Jen mi solleticò le narici, rientrando in casa, mi sentii meglio. Mi sedetti al suo fianco senza nemmeno pensarci, prendendomi una confidenza che poteva risultare pericolosa ma che Austin mi aveva già dato, e che io mi ero comunque già preso per conto mio. Austin trascinò una sedia vicino al divano, lasciandomi ancora più spazio, lasciandomi entrare ancora di più negli spazi di Jen.

Si fidava di me.

Lo sapevo.

Non sapevo per quale motivo né cosa avessi fatto per meritarlo, ma quella fiducia esisteva e tanto bastava. Fu il semplice concedermene altra a darmi la spinta per parlare.

«Che stupido, me ne stavo dimenticando. Kevin vorrebbe invitarvi al suo compleanno.»

«Kevin?» Austin alzò un sopracciglio.

Oh, bene. Neanche ricorda chi è.

«Il mio amico gay. Ricciolino, castano. Abbiamo fatto Capodanno insieme.»

«Ah.» Rise, c'era un certo velo di imbarazzo nella sua risata. Imbarazzo di cosa, non ne avevo idea e non mi interessava. Anzi, era probabile fosse persino un imbarazzo di facciata, finto quanto lui. «Scusa, non ricordavo il suo nome.»

«È simpaticissimo» intervenne Jen. «Vuole diventare uno stilista, sai?»

«Bello.»

Fu una parola vuota, giusto per dire qualcosa.

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