40. Matita

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Essere trascinato di prepotenza dalla propria madre al supermercato per fare la spesa non era esattamente la mia opzione preferita per trascorrere il sabato pomeriggio. Eppure eccomi lì, a spingere il carrello mentre mia madre era dispersa tra le corsie.

Ero tentato di scrivere a Tim e chiedergli di chiamarmi con una scusa qualsiasi per farmi evadere, ma il mio piano andò in fumo quando mamma tornò con le braccia piene di carta igienica.

«Un aiutino sarebbe gradito.»

Grugnii e mi avvicinai a lei con il carrello nel quale lasciò cadere la confezione.

«Tu sei a posto? Rasoio, schiuma, dopobarba?»

«Sì» risposi, scocciato.

«Deodorante?»

Alzai gli occhi al cielo. «L'ho già preso.»

Mamma si attaccò al carrello e mi obbligò a seguirla a passo di lumaca. Oltrepassammo il reparto bagno e finimmo in quello dei trucchi, subito dopo.

«Aspetta.» Si fermò. «Mi servono le salviettine struccanti.»

«Che palle...» borbottai tra me.

«Un po' di spirito, Warren!» mi rimproverò. Maledizione al suo udito da pipistrello che tuttavia funzionava soltanto quando faceva comodo a lei, ovvero quando c'erano solide basi per mettermi in punizione, criticarmi o farmi una ramanzina. «Non sei felice di passare un po' di tempo con tua mamma?»

«Mi pare che nell'ultimo anno ne abbiamo passato parecchio insieme, no?»

Al contrario di ogni mia aspettativa, mamma smise di cercare tra gli scaffali le salviettine e mi dedicò un sorriso e una carezza gentile sulla guancia. Lo stomaco mi si chiuse, solo un po'.

Sì, di tempo insieme ne avevamo passato davvero tanto, nell'ultimo anno. Da quel giorno, mi ero rinchiuso in casa per due mesi interi e lei era sempre rimasta al mio fianco, senza perdermi di vista per un secondo. Quando mi ero deciso a riprendere a frequentare l'università, lei era tornata al lavoro e io ero passato a essere sorvegliato dai miei amici. Se all'inizio ne ero rimasto infastidito, dopo mi ero reso conto che la mia vita stava semplicemente andando avanti. Ma senza di lui. Il dottor Robertson era stato colui che me lo aveva fatto comprendere meglio e in qualche modo accettare. Niente più vestirsi solo di nero, niente più pensieri auto distruttivi – anche se era ancora difficile sopportare il dolore, alcuni giorni –, niente più fughe nella notte per raggiungere quel letto su cui sentivo ancora impresso il nostro odore nonostante solo nella mia immaginazione.

Era passato quasi un anno, ormai.

Da poco avevamo festeggiato il suo compleanno senza di lui, riuniti nel salotto dalle pareti arancione e poi sul tetto. Guardare il sorgere del sole mi aveva aiutato a trovare un senso.

Quanto avrei preferito scoprirlo con lui al mio fianco.

La mano di mia madre scivolò via e io feci un respiro tremulo e profondo. Per pensare ad altro mi misi a sbirciare tra gli scaffali, anche se di trucchi non poteva interessarmi di meno. C'erano anche i lucidalabbra. Quelli sì che attirarono la mia attenzione.

Custodivo gelosamente il suo lucidalabbra al lampone dentro a un cassetto del mio comodino. Lo avevo consumato in parte: ogni volta che mi sembrava tutto troppo da gestire, ogni volta che il petto andava in fiamme, ogni volta che sentivo di sgretolarmi come i primi giorni, me lo passavo sulle labbra. Non sapevo come né perché, ma aiutava a calmarmi e ritrovare me stesso in mezzo ai fili sfilacciati. Dopo i due mesi da recluso, però, avevo pensato di comprarne altri così da conservare il suo. Patetico, sì. Ma non sopportavo l'idea di perdere altro di lui.

Come Toccare un FioreWo Geschichten leben. Entdecke jetzt