11. Risata

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Non c'era niente di meglio che passare il lunedì nella serra. Giovedì ci sarebbe stato l'ultimo giorno di laboratorio con le matricole e poi se ne sarebbe riparlato a febbraio o addirittura a marzo, perciò potevo permettermi di dare le giuste attenzioni a ogni fiore, a ogni pianta, sia a quelle già in forze sia a quelle che dovevano ancora svilupparsi.

C'erano i bulbi di ortensia appena piantati da un lato, i bulbi di narcisi dall'altro. Le azalee erano ancora baccelli, mentre le diverse specie di elleboro erano già sbocciate, fiori bianchi e fiori ibridi, un misto di rosa, bianco e violetto. Le camelie si erano dischiuse a metà e i ciclamini accanto erano di una nota intensa di viola.

Stare lì, circondato da tutti quegli odori e quei colori, mi faceva stare bene. E avevo disperatamente bisogno di stare bene, perché si stava avvicinando il periodo più brutto dell'anno.

Fra dieci giorni sarebbe stato Natale.

Due anni dalla morte di Rory.

Dall'assassinio.

Avrei avuto tempo per pensarci, un sacco di tempo per trovare un senso a qualcosa che ne era totalmente privo, ma non era quello il momento adatto. Sarebbe stata una seduta divertente, quella di mercoledì con il dottor Robertson. Per fortuna, nel fine settimana sarei partito per andare dai nonni; era diventato quello il mio modo di festeggiare il Natale, sempre che si potesse definire festeggiamento. Eravamo semplicemente noi, che passavamo qualche giorno insieme amandoci come una famiglia anche se io non facevo davvero parte della loro. Era tavola imbandita nonostante fossimo solo in tre, erano ricordi, tutti felici, non c'era spazio per quelli tristi, non mentre eravamo insieme. Era guardare le foto, guardare la televisione fino ad addormentarci, andare al cimitero. Era stare con un piede nel passato e uno nel futuro. Era andare avanti seppure non potessimo slegarci completamente da ciò che eravamo stati.

Era il modo migliore in cui potevo trascorrere i giorni più brutti della mia vita, ogni anno, a ripetizione.

Ma per una settimana ancora potevo godermi la tranquillità delle piante, la ruvidezza delle foglie e la liscezza dei petali. Potevo chiudermi a doppia mandata in un mondo che teneva tutto il resto lontano, le temperature invernali, le persone, i problemi e i pensieri.

Sempre che non avessero squillato direttamente dalla tasca dei tuoi jeans.

Quando lessi il nome sullo schermo, ci misi un paio di secondi di troppo a connettere, poi il pollice fece scivolare la cornetta verde.

«Jen?»

«Scusa se ti disturbo, ma non sapevo chi altro chiamare.» La sua voce era a dir poco disperata. Per un istante, un misero istante, pensai che tutte le mie supposizioni fossero vere e che stava per rivelarmi che Austin le aveva fatto del male. «Non mi parte la macchina e io ho un colloquio di lavoro tra un'ora. Posso non andarci, ma è importante per me, sembra un bel posto e... Dio, sto straparlando. Austin è al lavoro, tu sei la sola persona che conosco qui e... Non sei obbligato a dirmi di sì.»

«Sì.»

«Lo so, certo! Ma...»

«No, Jen. Intendevo "sì, ti accompagno io".»

«Cavolo, dici sul serio?»

«Come dire di no a una fanciulla bisognosa?»

Come dire di no se la fanciulla te lo chiedeva con così tanta urgenza, piuttosto. Mi diedi dello stupido per il pensiero che mi aveva sfiorato poco prima e anche perché era più forte di me. Kevin aveva ragione, maledizione a lui. Avevo la sindrome del cavaliere. Mia madre avrebbe detto semplicemente che ero un ragazzo buono. Buono, sì... ma sperai pure non fesso.

Come Toccare un FioreWhere stories live. Discover now