27. Prigionia

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C'erano diversi modi in cui avrei potuto fare spazio nel mio cuore. Il primo che mi venne in mente fu essere sincero. Con me stesso, ma, prima di tutto, con Jen.

Per questo, dopo le ripetizioni a quella testa di legno di Kyle, mi ero fiondato fuori dall'università e mi ero diretto al Chroma Couture. Peccato che non avevo ancora trovato il coraggio di uscire dall'auto. Il fumo si era accumulato nell'abitacolo, aleggiava sopra la mia testa, attorno a me. Quando finii la sigaretta, un ultimo filo grigiastro si unì ai suoi compagni. Andai avanti a respirarlo finché mi resi conto della pessima figura che avrei fatto presentandomi pregno di quell'odore, così abbassai i finestrini sia dal lato guidatore sia passeggero e agitai le braccia per far uscire il fumo.

Cristo, ero il solito pappamolle che si rifugiava in auto pur di non affrontare i propri sentimenti. Ancora non li conoscevo, non del tutto, ma non ero lì proprio per capirci qualcosa? C'erano le parole adatte, da qualche parte dentro di me, dovevo soltanto trovarmici faccia a faccia. Ero convinto che la terra bagnata degli occhi di Jen sarebbe stato il luogo perfetto in cui piantarle e aspettare che crescessero.

Ma perché accadesse dovevo uscire dall'auto.

E dovevo guardarla negli occhi.

Dovevo smetterla di sovrapporla a Rory, di ritenerla il suo fantasma, di cercare somiglianze dove esistevano solo differenze.

Dovevo smettere di avere paura di lei.

Paura di qualunque fossero state le conseguenze.

L'unica non contemplabile era che lei rimanesse con Austin.

«Va bene, ci sto pensando anche troppo.»

Alzai i finestrini e uscii dall'auto sbattendo la portiera con troppa forza. Annusai la sciarpa sentendomi addosso il fumo. Non potevo farci niente, ormai. Scavai però nel borsello e ne tirai fuori il lucidalabbra al lampone. Me ne spalmai uno, due, tre strati. Il sapore funzionò come placebo e il profumo mi diede l'illusione di non puzzare del tutto.

Quindi mi diressi all'ingresso.

«Buongiorno» mi accolse una delle commesse.

«Buongiorno.» Dopo aver dato una rapida occhiata attorno, mi avvicinai a lei. «Per caso Jen è di turno?»

Già, avrei potuto aver sprecato mezz'ora delle mie paturnie per niente, perché non avevo idea dei turni di Jen e non mi fidavo a scriverle. Mi era sembrato però più sensato andare lì rispetto a casa sua, con il rischio di non trovarla e dover tornare indietro. Soprattutto perché non conoscevo nemmeno i turni di Austin e avrei potuto ritrovarmelo davanti. Ero troppo incazzato perché un nostro incontro non finisse in rissa.

«Penso stia sistemando i camerini» mi rispose la commessa.

«Grazie.»

Raggiunsi i camerini a passo rapido, per poi rallentare una volta di fronte. Entrai nel corridoio che li ospitava, sei sulla sinistra e sei sulla destra. I primi avevano le tende chiuse, sentivo il chiacchiericcio di un paio di ragazze, più un'altra che si stava lamentando con quello che supposi essere il suo fidanzato perché il vestito non le stava bene. Gli feci un cenno di comprensione, quando il ragazzo alzò gli occhi al cielo, esasperato, e continuai la mia ricerca. Mi guardai a destra e a sinistra, i camerini erano vuoti, poi passai a quelli successivi e a quelli dopo ancora. E poi eccola.

«Jen?»

Le caddero i vestiti di mano, le grucce in ferro tintinnarono tra loro e sul pavimento. Aveva esattamente l'espressione sconvolta che mi aspettavo.

«Warren, cosa... Perché sei...»

«Vorrei parlarti.»

Jen si morse il labbro inferiore, quando lo lasciò andare notai il rossetto sui suoi denti. Le feci segno di pulirsi facendo finta di spazzolarmi i denti con l'indice e lei sobbalzò voltandosi appena per nascondersi mentre si ripuliva. Poi fu come se si accorgesse dei vestiti a terra e si inginocchiò per raccoglierli. Mi abbassai anche io.

Come Toccare un FioreWhere stories live. Discover now