29. Rinascere

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Avevo letto e riletto il messaggio di Jen almeno cento volte, da quando mi era arrivato la sera precedente, poco prima che andassi a letto. Avevo passato la notte pensando a cosa rispondere, fantasticando su dialoghi immaginari, su scene tra me e lei; ma quella mattina avevo resettato tutto e le avevo risposto con: Possiamo vederci?

Aveva accettato.

Mi aveva scritto che aveva mentito a Austin sul suo turno al negozio dicendogli che avrebbe fatto chiusura quando invece sarebbe uscita di nuovo alle quattro. Io avevo tirocinio fino alle quattro e mezza, ma appena finito sarei volato fuori dall'ateneo.

Ed ecco che mi trovavo per l'ennesima volta davanti al Chroma Couture.

«Allora è così! Sfrutti davvero lo sconto dipendenti per fare shopping.»

Jen si voltò sorpresa; il sorriso raggiante che spuntò sul suo viso fu la prima novità di quel pomeriggio.

«Che ne pensi?» Sventolò un maglione bianco a trecce, il collo alto e largo.

Mi grattai una guancia. «Chiedi all'uomo sbagliato. Non ci capisco niente di questa roba.»

Jen mi scrutò fino alla punta delle scarpe. «Non si direbbe.»

«Ringrazia mia madre che mi compra i vestiti.»

Rimase interdetta per un attimo. «Davvero?»

«Davvero» confermai con un movimento eloquente delle sopracciglia.

E Jen scoppiò a ridere.

Dio, stava ridendo.

Ridendo sul serio. Disinibita, squillante, calda. Quale incantesimo l'aveva colpita, quella notte? Era stata sostituita con sua sorella gemella? Le mie parole erano andate realmente così a fondo? Cristo, avrei voluto conoscere quella Jen dal primo giorno.

Allo stesso tempo mi chiesi se potessimo permetterci di comportarci così, come se le ultime ventiquattro ore non fossero esistite, come se fossimo due amici che si erano dati appuntamento per un frullato e un hamburger.

Una parte di me – una grossa parte di me – decise che non si potesse ignorare.

«Come stai?» chiesi, quindi, infilandomi le mani in tasca.

L'atmosfera cambiò di colpo.

«Cerco di non pensare» rispose Jen. Lo pronunciò a testa alta, per quanto la sua voce non fosse intensa come fino a poco prima.

«Ci stai riuscendo?»

«È complicato.» Scrollò le spalle. «Ma non mi hai mai detto che sarebbe stato facile.»

«No, non l'ho mai detto.»

«È reale, però.» Jen portò una mano chiusa a pugno sul petto. «Vero?»

«Sì!» risposi con troppa foga. Deglutii. «Assolutamente sì, è reale. Non ancora del tutto, forse, ma è un inizio.»

Jen annuì, poi posò il maglione.

«Non lo compri?»

Scosse la testa.

Mi venne l'impulso di scusarmi. Lei stava lottando da tutto il giorno contro se stessa e contro la vita in cui si era costretta, stava cercando di aggrapparsi a qualsiasi cosa, anche a qualcosa di futile come lo shopping, e io avevo rovinato il suo sforzo con un paio di frasi e il mio atteggiamento. Il sorriso di Jen spento in men che non si dica.

Quanto cazzo sono cretino.

La seguii fuori dal negozio e fino alla mia auto, su cui salimmo insieme. Una volta chiuse le portiere, l'allegria sembrò ricomparire. Non solo sul suo viso ma anche nel suo spirito. Era sprezzante, era il desiderio di riuscirci, di essere tutto ciò che il giorno prima le avevo detto avrebbe potuto essere. Sì, ero stato io a tendere una mano verso di lei e, come aveva scritto nel messaggio, sarei sempre stato pronto a porgergliela. Al diavolo i dubbi, al diavolo cosa potevamo o non potevamo fare. Al diavolo la cautela. La vita era una sola, ed ero stato io a farle capire che viverla dipendeva solo da lei. L'avrei assecondata qualunque cosa avesse deciso, qualunque cosa avesse voluto.

Come Toccare un FioreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora