39. The Hardest

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Camminando, mi accorsi che l'hotel era più vicino di quanto pensassi: ci avrebbero messo davvero poco a raggiungermi e l'unica cosa che non volevo era vederla.

Così sfilai le chiavi della macchina dalla borsa e ci aprii la Range Rover parcheggiata fuori al Palace Hotel in cui alloggiavamo. Tirai subito giù i finestrini: l'aria sembrava mancarmi ad ogni passo che facevo. Non avevo idea né di dove andare né di cosa fare; ma dovevo starle lontana per almeno dieci minuti.

Misi in moto e, nonostante avessi voluto schiantarmi su un muro, proseguii per Union Square a velocità moderata. L'unica cosa che mi consolava, anche se davvero minimamente, era la musica che passava alla radio: ero riuscita a beccare una stazione che mandava tutte canzoni che amavo.

Il telefono cominciò a squillarmi, proprio come quella volta a Sydney e, per evitare di fare danni come un mese prima, mi accostai per parlare:

"Pronto?"

"Ciao amore."

"Hey, ciao mamma."

"Che fate?  Vi divertite?"

"Oh" Tentennai: "Davvero uno sballo."

"Avete visto qualcosa di inter"

Boom, il telefono si era spento lasciandomi senza batteria. Diedi una botta allo sportello e poggiai il telefono sul grembo, abbassando poi la testa contro il volante di pelle. Stavo morendo di fame, oltretutto, e quando alzai gli occhi, mi accorsi di un'insegna luminosa che faceva scoppiare la luce sul mio finestrino destro: kebab.

Fu come se i miei occhi si illuminassero: non impazzivo particolarmente per quel cibo, ma stavo letteralmente morendo di fame. Scesi, quindi, e chiusi velocemente la porta per poi entrare nel piccolo locale illuminato.

La luce bianca, sparata a mille, mi fece ritornare alla realtà:

"Uno piccolo." Presi i soldi e glieli porsi: "Grazie."

Nel giro di una cinquina di minuti, mi ritrovai a camminare nell'oscurità di Golden Gate Park a ingozzarmi con quella roba tossica.

Non volevo pensare a Camila, ma più il suo nome mi compariva nella testa, più non potevo fare a meno di immaginarla mentre era con Matt. Non avevo fatto nulla e se, per una cosa così piccola, la sua reazione fosse stata così grande, non avrei saputo davvero come potermi fidare di lei in situazioni più complicate.

Incrociai i piedi e mi sedetti sulla panchina nera illuminata da un solo fottutissimo lampione e buttai la carta del cibo appena finito, in un secchio lì vicino.

Avrei voluto solamente tornare in hotel e dormire per non pensarci più. Ma tornare sarebbe equivalso a vederla ubriaca fradicia e senza nessun tipo di reazione intelligente: ed io avevo bisogno, per una volta, che lei fosse chiara e sincera nei miei confronti.

"Ciao." Mi disse qualcuno: "Sai per caso che ore sono?"

Era evidente di chi fosse quella voce e, per un attimo, sentii il bisogno di correre ad abbracciarlo e non lasciarlo andare. Mi alzai, quindi, e riconobbi subito quei ricci marroni che non vedevo da davvero troppo tempo:

"Sei ovunque."

"No" Rise: "Sei tu che vieni ovunque io sia."

Bradley mi raggiunse e mi abbracciò, sospirando nei miei capelli. Mi afferrò la mano e mi rimise a sede, poggiandosi esattamente accanto a me:

"Allora? Che ci fai qui?"

"Sono da mia zia." Sospirò: "Ma questa è l'ultima sera."

"E come mai sei in giro a quest'ora, tutto solo?"

The fault of the moon || CamrenWhere stories live. Discover now