69. Another life

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Alzai gli occhi al cielo, coprendomi con le mani dal sole per osservare la parete, e sorrisi alle numerose dediche d'amore scritte sul muro. Erano passati due giorni dal mio arrivo a New York e nessuno sembrava essersi accorto della mia presenza nell'hotel. Io e Camila ci eravamo viste spesso, durante l'arco dei due giorni, e le cose sembravano essere davvero diverse. La notizia che Steph se ne sarebbe andato ci aveva gettato nel cuore una nuova speranza: senza lui, magari, tutta questa storia sarebbe stata meno pesante per tutte noi. Certo, eravamo dispiaciute: dopotutto avevamo condiviso con lui tantissime cose; ma, pensando a noi, la decisone del management mi sembrò la cosa migliore.

Osservando i numerosi foglietti attaccati, sorridendo, mi venne in mente l'idea di fare la stessa cosa che avevano fatto tanti innamorati che erano passati di lì; ma, senza Camila, non sarebbe stato lo stesso. "La porterò qui stasera" pensai "Cosi anche noi scriveremo la nostra promessa d'amore". Ero felice, finalmente, e, nonostante la ragazza non fosse lì con me in quel momento, sapevo che presto saremmo state di nuovo vicine. Il telefono suonò e, leggendo il nome di mia madre, fui costretta a rispondere:

"Lauren?"

"Ciao mamma, tutto bene?"

"Noi bene, tu? Come procede?"

Mi guardai attorno e notai la città che amavo circondarmi totalmente: andava tutto alla perfezione.

"Direi che procede tutto alla grande. Torneremo presto, forse domani, e tutto questo casino sarà solamente un ricordo lontano."

" Ne sono felice" disse sincera: "Ti ho chiamata per chiederti scusa."

Aggrottai la fronte: mia madre non era il tipo da chiedere scusa. Cioè, si, se sbagliava lo ammetteva: ma in 19 anni non l'avevo mai sentita così pronta a riparare ad un suo errore.

"Scusa per cosa?"

"So come ti sono sembrata l'altra volta e non voglio assolutamente che tu pensi che io non dia il giusto peso all'amore che tu provi per Camila..."

Rimasi in silenzio, perché la sentii sospirare, ed abbassai gli occhi a terra. Feci per parlare, ma la donna concluse il suo discorso:

"Resterai sempre la mia bambina" rise: "che ti piaccia o no, non smetterò mai di preoccuparmi per te."

"Va bene, mamma" sorrisi a mia volta: "Le cose si sono sistemate, non devi aver paura di nulla."

La capivo, davvero. Nonostante ci fossero state molte parole che non mi erano piaciuta, mia madre aveva ragione: ero la sua bambina, in fondo, e nessuno vorrebbe vedere la propria figlia soffrire.
Attaccai poco dopo, rassicurandola ancora, e mi diressi verso Time Square, dove lo Sheraton mostrava la sua immensità.
Nascondermi non era stato un problema, ma era ora di tornare nella mia camera: si stava facendo tardi ed il tempo andava peggiorando.
Salii in camera e, aprendo la porta, mi accorsi di un biglietto lasciato passare sotto l'ingresso.
Lo raccolsi, posando la borsa sul letto, e lo aprii:

"So che è tardi e sarai stanca, ma io ti aspetto alla Grand Central Terminal per un giro di New York. Allora?Che ne dici?"

La scrittura di Camila non poteva essere più familiare: l'avrei riconosciuta ovunque. Guardai l'orologio ed afferrai al volo la giacca nera. Mi misi la borsa sulla spalla e corsi giù per le scale: non potevo sapere se Camila fosse ancora alla stazione ad aspettarmi: chissà quando aveva lasciato quel biglietto.
Presi il telefono e composi velocemente il suo numero.

"È pericoloso chiamarmi al telefono, lo sai?"

"Lo so" dissi continuando a correre: "è per questo che ho messo lo sconosciuto. Sei ancora lì?"

The fault of the moon || CamrenWhere stories live. Discover now