Casa.

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Camminavo nel parcheggio davanti all'ospedale, in mezzo ad un'infinità di auto ferme.

Il respiro era tornato regolare, ma le forze in corpo erano diminuite parecchio, così mi accasciai esausta su di un muretto in cemento.

Improvvisamente un'auto a sirene spiegate attraversò il parcheggio ad una velocità decisamente esagerata, per poi fermarsi bruscamente dinnanzi ad una fitta folla radunata davanti all'ingresso dell'edificio. Un uomo in camice cominciò a parlare con un agente, che nel frattempo era sceso dal veicolo, indicando la direzione nella quale mi ero diretta.

In un debole sospiro realizzai di dover riprendere la corsa.

Scappai, nonostante il mio corpo supplicasse riposo.

In pochi secondi i due agenti incaricati mi individuarono e si diressero verso di me.

"Polizia! Sei pregata di fermarti e metterti in ginocchio con le mani in alto!" Urlarono a gran voce puntandomi le armi contro, ma io non mi fermai, costringendoli a venirmi dietro.

L'aria entrava e usciva dal mio corpo con estenuante velocità, il cuore martellava forte nel petto, i polmoni bruciavano in disperata e continua ricerca di ossigeno.

Arrivai alla strada. Le macchine sfrecciavano su tre corsie, ignare del fatto che potesse attraversare qualcuno all'improvviso. Chiunque avrebbe pensato fosse una cosa folle anche solo immaginare di attraversare la carreggiata, ma io non avevo altra scelta.

Mi voltai e vidi i due uomini starmi dietro, senza mostrare il minimo segno di stanchezza.

Così puntai con lo sguardo il marciapiede dalla parte opposta. Feci un respiro profondo, e con un po' di timore mi buttai nel traffico scatenando un putiferio di clacson, sgommate e insulti. Per poi fare il maledetto errore di voltarmi. Il suono di un clacson mi bucò i timpani divenendo assordante, qualcosa mi urtò con violenza sul fianco destro. Un secondo dopo rotolavo sul parabrezza di un'auto per poi cadere a peso morto sulla strada.

Un calore insopportabile mi pervase una spalla, e per un attimo pensai di arrendermi, ma all'udire le voci concitate dei due agenti sempre più vicine l'adrenalina si fece strada nel sangue portandomi a correre zoppicante verso la libertà.

Chiedendomi dove potessi trovare rifugio, il primo posto che mi venne in mente fu la casa di mia madre. Purtroppo però la mia memoria confuse le vie; mi portò a girovagare smarrita per isolati interi.

Mi fermai un secondo a prendere fiato, sperando di essere finalmente sola. Non ce la facevo più, le gambe e ogni muscolo del mio corpo tremavano dalla stanchezza. La spalla pulsava ancora.

Appoggiai le mani sulle ginocchia e cercando di rallentare il respiro.

Mi voltai ma non vidi traccia degli agenti.

Il sole stava calando lentamente sul profilo del mare, dipingendolo di colori vivaci, e colorando le nuvole di un rosa tendente al rosso.

Svoltai l'angolo. Qualche metro più avanti una stretta allo stomaco mi lasciò quasi senza fiato: dinnanzi a me si stagliava la casa in cui ero cresciuta.

Un maestoso edificio bianco si ergeva davanti ai miei occhi, dietro il cancello nero e il cortile ben curato cosparso di fiori rosa.

Due fontanelle troneggiavano fiere ai lati del piccolo sentiero in pietra che portava all'ingresso; i confini della proprietà erano delimitati da siepi verdeggianti e folte.

Pensai alla prima volta che la vidi dalla perdita della memoria, ricordando il ritorno dall'ospedale e il silenzio assordante che alleggiava nella limousine di mia madre, segnata dal tempo da rughe sottili, nascoste con numerosi strati di fondotinta.

Suonai al campanello, e una voce roca rispose.

"Sono Adeline" affermai ansimante.

Il silenzio regnò per qualche secondo aldilà del citofono, come se chiunque avesse risposto fosse stato colto nel compiere un ignobile fatto, dopodiché il cancello automatico cominciò a protendersi verso l'esterno liberando il varco.

Entrai e percorsi il sentiero di pietre che attraversava il grazioso giardinetto fino alla porta d'ingresso.

Questa si aprì lentamente, e da dietro ne uscì una signora sulla sessantina, ben curata e all'apparenza più giovane di quello che ricordavo. Vestiva di bianco, con un grazioso vestito in seta. I capelli biondi legati in un complicato ed elaborato muccetto, che risaltava gli occhi scuri leggermente truccati; al collo un vistoso punto luce le illuminava il viso, accentuato dalla prorompente abbronzatura artificiale.

Appena mi vide mi abbracciò, soffocandomi con il suo odioso profumo.

"Ciao mamma" sussurrai titubante ricambiando l'abbraccio con scarso entusiasmo.

"Ci sei mancata tanto" mi disse, accarezzandomi i capelli "Davvero tanto..."

Repulisti - La ragazza senza nomeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora