Regressione

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22 gennaio 2016

"Sei pronta?" Chiese, spostando una sedia verso il bordo del letto in modo da sistemarsi al mio fianco con un registratore in mano.

"Sì..." sospirai, sdraiata sul letto matrimoniale della sua stanza.

In un click la registrazione partì.

"Chiudi gli occhi e rilassati" disse William con voce calma "devi distendere completamente i muscoli e i nervi, abbandonarti al tuo corpo e liberare la mente."

Cancellai ogni singolo pensiero concentrandomi su me stessa, chiusi gli occhi e immaginai di dormire cominciando a sentire un leggero formicolio in tutto il corpo.

"Perfetto, ora lasciati guidare dalla mia voce. Ti farò delle domande e tu dovrai rispondermi sinceramente. Rimani rilassata non accadrà nulla io sono qui accanto a te."

William attese qualche minuto in silenzio, poi mi tuffai nel passato.

Agosto 2015

La pelle fragile come carta velina si incontrava con il cemento freddo del pavimento, mentre ogni centimetro del mio corpo fremeva, come pervaso da leggere scosse elettriche: i polsi arrossati erano legati insieme con una catena spessa, mentre sentivo un dolore immane alle articolazioni delle spalle come se avessero cercato di strapparmi le braccia dal busto.

Avrei voluto muovermi ma mi risultò impossibile, il corpo si rifiutava di obbedire agli ordini del cervello ribellandosi contro sè stesso.

Le cicatrici su gambe e braccia risultavano più sensibili al freddo, mentre alcune croste rimaste dolevano leggermente al contatto con il suolo. Temetti di morire; ma non per il dolore o per il freddo. Temetti di morire per ciò che mi stava accadendo, per cosa stesse sopportando il mio corpo giorno dopo giorno.

Per l'incontrollabile violenza psicologica e fisica a cui ero costantemente sottoposta.

Non avevo più nemmeno la forza di respirare, ero vigile in un corpo morto.

D'un tratto dei passi nel corridoio mi riportarono alla realtà, la cella fu aperta con foga e due uomini mi presero per le braccia trascinandomi lungo i corridoi bui: scorsi altre porte, ma la vista confusa mi impedì di distinguerne i dettagli.

Sul punto di svenire non mi resi conto della distanza che percorremmo.

I due uomini rimasero in silenzio per tutto il tragitto, mi chiesi cosa mi aspettasse, sperando in un'irraggiungibile libertà.

Giungemmo poi in una sala, alla fine di un lungo corridoio: l'ambiente era totalmente buio tranne che per un'unica luce accecante. Ci avvicinammo, e realizzai fosse una sorta di gabbia: quattro vetri trasparenti delimitavano un'area di pochi metri quadri.

Due file da sette buchi larghi due centimetri, lasciavano entrare aria dalle quattro pareti e una grossa porta di vetro ne delineava l'ingresso.

Fui scaraventata sul pavimento di essa e rinchiusa come un'animale, non ebbi nemmeno la forza di protestare, muovermi, sussurrare una lamentela.

Respiravo a fatica con le poche energie rimastemi: accettando la mia imminente morte.

Accarezzai il ventre leggermente rigonfio con le lacrime agli occhi, contorcendomi sul cemento gelido dalla rabbia e dal dolore: le mie speranze di vita erano ormai minime ma pregai che risparmiassero almeno quella che portavo in grembo.

Poco tempo dopo, delle flebili luci illuminarono l'oscurità rivelando una serie di maschere veneziane argentate, ognuna nascosta sotto un cappuccio nero, che mi osservavano.

Rabbrividii indietreggiando, finché non realizzai di esserne circondata.

Ad un tratto quattro uomini, due vestiti di bianco e due di nero, si fecero strada fra la folla, che sembrava crescere all'infinito; si chiusero dentro la cella reggendo una grossa valigetta.

Schizzai ad un angolo della piccola stanza cercando una via di fuga, ma i due vestiti di nero mi afferrarono per le braccia immobilizzandomi al suolo.

Fui privata dei miei indumenti intimi e forzata ad allargare le gambe: intuii le loro intenzioni e provai a divincolarmi, ma mi fu velocemente iniettato un calmante e i miei movimenti divennero troppo lenti per poter essere efficaci.

Uno dei due uomini vestiti di bianco aprì la valigetta estraendo un grosso ago, simile a quelli utilizzati per realizzare i lavori a maglia, e con mano tremante si avvicinò a me.

Provai ad urlare ma non ottenni risultati soddisfacenti, il calmante che avevo in corpo mi impediva anche l'uso corretto della parola, portandomi a farfugliare cose incomprensibili.

L'uomo si rifiutò di portare a termine il lavoro, tremante e agitato sì dileguo sparendo tra la folla; così l'altro prese in mano l'ago e tirando una fugace occhiata al pubblico si convinse a farlo: in ginocchio dinnanzi a me infilò con prepotenza l'oggetto all'interno del mio corpo.

Gli spettatori rimasero impassibili, mentre quell'uomo mi scavava nel grembo come alla ricerca d'oro: il dolore divenne talmente insopportabile da annullarsi, sovrastare i fremiti dei muscolie le mie urla, svuotarmi la mente, lasciarmi senza fiato.

Mi abbandonarono in un lago di sangue con una flebo al braccio, privata del piacere di morire. Piansi disperata, per poi cedere allo sfinimento.

Era un'infinità che non dormivo, forse giorni, forse settimane, ma quando ripresi coscienza mi sentii finalmente riposata. Provai a sedermi sentendo un insopportabile dolore al bassoventre. Cosa diavolo era successo, e dove mi trovavo?

D'un tratto un paio di chiavi tintinnarono nell'oscurità, scattai in piedi pervasa dal dolore. La porta fu aperta silenziosamente, e non appena percepii lo spostamento d'aria corsi fuori, ma fui subito afferrata per un braccio: mi voltai scoprendo il volto delicato del ragazzo che mi negava la libertà, illuminato parzialmente dalla luce della cella: non capii cosa volesse, ero libera? Altrimenti cosa mi aspettava?

"Non puoi andare da sola. Conosco delle scorciatoie per uscire senza essere visti ma devi fidarti di me e promettermi una cosa." Disse sussurrando.

"Cosa devo prometterti?" Chiesi con voce rauca.

"Che scapperai senza guardarti indietro."

"Promesso" Affermai senza esitazione, e ci tuffammo nel buio insieme.

Repulisti - La ragazza senza nomeWhere stories live. Discover now